Lo scrittore, finalista al premio Strega, ha esaminato la fisicità divenuta protagonista nella letteratura e nell’arte.
“È molto difficile trovare racconti e romanzi che raccontino un corpo felice”.
Sulle modalità con cui letteratura e arte hanno esplorato fra Otto e Novecento la tematica del corpo è incentrato Piccola storia del corpo (Giulio Perrone Editore), interessante e puntuale disamina dello scrittore e saggista Paolo Di Paolo – finalista all’edizione 2013 del Premio Strega con il romanzo Mandami tanta vita – realizzato in collaborazione con Alma Gattinoni e Giorgio Marchini per la sezione artistica.
Perché un saggio sul corpo nella letteratura e nell’arte?
Credo che tutto nasca da una sorta d’intuizione, neanche troppo originale: in questi ultimi anni ho riscontrato una maggiore centralità del corpo nella narrativa, al punto che si potrebbe quasi parlare non tanto, come lo chiamerebbe Giacomo Debenedetti, di personaggio-uomo, quanto di personaggio-corpo, cioè di un personaggio che, prima ancora di essere definito dalla sua psicologia, viene messo in rilievo attraverso la sua fisicità. Sono corpi parlanti: corpi che si esprimono attraverso l’esibizione della visceralità, la sessualità, una massiccia e invadente fisicità. Ho pensato di analizzare la letteratura degli ultimi anni sotto questa prospettiva, caratterizzata il più delle volte da una connotazione tragica. Ho rilevato che è molto difficile trovare racconti e romanzi che raccontino un corpo felice: ricorre sempre un corpo umiliato, ferito, un corpo in cui ci si sta stretti o che si vorrebbe cambiare, un corpo troppo grasso o troppo magro, un corpo che cerca il proprio equilibrio e non lo trova. Il tema della malattia è molto presente nei romanzi di questi ultimi anni; anche quando viene raccontata la sessualità, tuttavia, è molto difficile che lo si faccia in una prospettiva felice, conciliante; c’è sempre dietro un’ombra, qualcosa che la rende parossistica e disperata”.
È particolarmente interessante la dimensione letteraria del corpo nel Novecento…
Durante gli ultimi anni del secolo scorso si è affermata una nuova modalità di racconto, in cui il corpo viene investito di una forte carica simbolica: il corpo di un personaggio arriva a riassumere in sé tutti i drammi di un secolo. Penso in particolare a due libri: Un giovedì, dopo le cinque di Antonio Debenedetti e Tristano muore di Antonio Tabucchi. Da una parte troviamo il corpo del Piero Ceriani di Debenedetti, un corpo profondamente ripiegato su sé stesso, un corpo vecchio, stanco e ostile che ha attraversato ambiguità e viltà del secolo, dall’altra il corpo eroico, segnato dall’impegno civile, del Tristano di Tabucchi, un corpo malato, sofferente, che diventa parimenti la rappresentazione simbolica di un secolo che muore”.
Ogni epoca proietta un’immagine ideale del corpo…
Ogni epoca esprime un’immagine dominante riguardo il corpo, proiettando su di esso un particolare desiderio o un ideale di perfezione. Ad esempio un corpo pingue, florido, non sempre è stato, come lo percepiamo oggi, un corpo negativo – basti pensare a certe rappresentazioni della cultura indiana o del Rinascimento italiano. È interessante, per un contemporaneo, constatare come questa evoluzione del racconto del corpo porti nel presente ad una riconfigurazione complessiva del discorso, dove le contraddizioni diventano molteplici: l’immagine del corpo magro, solitamente associato ad un’idea di salute, sfocia nel corpo anoressico che della salute è evidente antitesi, mentre un corpo vecchio, che poteva in certi frangenti essere assimilato ad un ideale di saggezza, assume oggi i tratti dell’emarginazione, dell’invisibilità”.
Quali sono, a livello internazionale, le ultime tendenze nel racconto del corpo? E la sua opinione sulle autobiografie pubblicate recentemente di scrittori ancora in vita – si pensi a Diario d’inverno di Paul Auster?
Nella scrittura memoriale degli ultimi anni – alla quale va ascritto, fra gli altri, Diario d’inverno di Paul Auster – gli scrittori si soffermano molto sul proprio corpo che invecchia. Trovo molto commovente avvertire il proprio corpo come un limite e al tempo stesso come il mezzo che ti consente di esserci, pur privato di alcune possibilità. Sicuramente negli ultimi decenni questa ossessione del corpo ha indotto a pensare che la scrittura debba raccogliere anche gli aspetti più viscerali, organici, materiali. Sono tanti gli autori che potrebbero essere citati: si pensi a Philip Roth, che in Nemesi descrive l’ingiustizia della malattia che incrudelisce contro i corpi dei bambini, mentre ne L’animale morente prende in esame un corpo fisicamente attraente – il corpo di una giovane donna – destinato ad essere devastato dalla malattia. A me sembra che il punto essenziale sia la tragedia, una tragedia quasi senza riscatto”.
Calvino: uno scrittore senza corpo?
Sembrerebbe uno scrittore senza corpo, saremmo orientati a pensare che tra gli scrittori italiani del Novecento sia quello più cerebrale, più intellettuale, più sofisticato; in realtà si tratta di un corpo non rimosso, tutt’al più nascosto, intellettualizzato. Ci sono scritti, anche dell’ultimo Calvino, in cui il corpo torna soprattutto attraverso i sensi, in una sorta di geometria intellettuale che porta a far sentire in forma di racconto la definizione del senso, come avviene in Sotto il sole giaguaro. Anche Palomar, che sembrerebbe un personaggio senza corpo – e infatti non è mai descritto – percepisce il mondo in modo profondamente corporeo. Il corpo s’impone come l’unico strumento per accedere alla conoscenza del mondo; Calvino è sì uno scrittore che intellettualizza, ma sempre partendo dai sensi, dalla sensorialità, quindi dal corpo”.
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