In Iraq l’ISIS ha i giorni contati: Mosul sta per tornare nelle mani del governo. In tutta la seconda città del Paese, la più grande mai occupata e controllata dall’ISIS, avanzano lentamente le truppe governative. Ai jihadisti resta circa il 10% della parte occidentale della città, sulla riva destra del Tigri.
Le forze fedeli al governo di Baghdad “hanno circoscritto l’area controllata dallo Stato islamico a 12 chilometri quadrati”, dice il portavoce dell’esercito, il generale Yahya Rasool.
L’avanzata lenta e graduale delle truppe regolari è stata decisa, oltre che per non cadere nelle mille trappole disseminate dai jihadisti, per provocare meno vittime civili possibili. Una preoccupazione più che lecita, in una città che secondo le stime più basse conta ancora 750 mila abitanti.
Stanotte le Unità di mobilitazione popolare – milizie irregolari costituite da sciiti, inquadrate però nell’esercito governativo – hanno attaccato le postazioni dei jihadisti nel quartiere di al-Qayrawan, e hanno riferito di aver trovato meno resistenza del previsto. Intanto la brigata antiterrorismo addestrata dagli USA ha annunciato la liberazione del quartiere di al-Uraybi.
C’è da aspettarsi che i jihadisti, in vista di una sconfitta che ora pare inevitabile, si siano preparati a resistere fino all’ultimo uomo. Probabilmente il luogo dello scontro finale sarà la grande moschea di al-Nuri, all’ombra del minareto pendente. Oltre ad essere uno dei simboli della città, la moschea è il luogo dove Abu Bakr al-Baghdadi proclamò la nascita del Califfato nel 2014.
Si avvia così a conclusione una battaglia iniziata a ottobre scorso, quando in città sono arrivate le truppe irachene – assistite fino alle porte della città dai peshmerga curdi sostenuti dagli USA – dopo mesi di offensiva lungo il Tigri. La metà orientale della città è stata liberata il 24 gennaio. Poco dopo le forze filogovernative hanno iniziato la lenta marcia nella parte occidentale.
La città ha pagato l’occupazione e la riconquista a caro prezzo. Oltre a imporre la loro personalissima interpretazione della legge islamica, e a non mostrare pietà nei confronti delle minoranze religiose (un tempo numerose e consistenti, in una città che ha una plurisecolare tradizione multiculturale), i jihadisti hanno governato con il pugno di ferro, con esecuzioni sommarie, punizioni sommarie e rappresaglie di gruppo contro i civili. Ma sono state segnalate atrocità commesse anche dai liberatori, e non tutte si spiegano con le logiche della vendetta e della rappresaglia.
Lo scorso marzo, uno sconsiderato bombardamento USA ha ucciso circa 200 civili rimasti in città: il bilancio più grave dai tempi dell’invasione lanciata da George W. Bush. L’unica esile consolazione per i cittadini è legata alle armi chimiche: l’ISIS non ha provato di avere a disposizione quegli arsenali di gas nervino contro cui mettevano in guardia alcuni commentatori. Sono stati commessi solo attacchi su piccola scala, con rudimentali gas vescicanti, e non contro la popolazione civile.
La fine imminente del Califfato non deve illudere: i jihadisti sono ancora tanti, agguerriti, armati e pericolosi. Anche quando non avranno più uno Stato islamico – e per la prima volta sembra realistico che questo momento possa arrivare presto – resteranno affiliati a una delle organizzazioni terroristiche internazionali più preparate e più temibili. Anche perché l’Iraq in tempo di pace avrà la priorità di riorganizzarsi.
Perso il nemico comune, le tre anime dello Stato – sunnita, sciita e curda – dovranno trovare un altro modo per convivere superando odi e faide di parte. Bisognerà fare prima possibile, ma evitare soluzioni affrettate e pasticciate. Il precedente storico preoccupa: quando gli USA decapitarono il regime di Saddam Hussein, inventarono una formula federale che non ha mai accontentato veramente nessuno. Ora, però, tutte e tre le parti hanno chiaro quali rischi si corrono a non dare priorità all’interesse del Paese.
F.M.R.
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