Non sono tempi facili per la giustizia italiana costretta a difenderela propria credibilità e quella dei propri funzionari messe in dubbio dallo scoppio del caso Palamara che ha travolto il Csm, dalla fuga di notizie sui verbali secretati dell’avvocato Amara, che scoperchia le faide interne della procura di Milano, e dalla recente iniziativa di Salvini che con i Radicali sta raccogliendo le firme necessarie per promuovere un referendum che riformi il terzo potere dello Stato.
Siamo ormai ben lontani dall’epoca in cui i magistrati rendevano quotidianamente onore alla Giustizia Civile di cui erano i rappresentanti, spesso pagando con la propria vita l’alto senso del dovere; Giustizia che invece oggi lascia perplessi la stragrande maggioranza degli italiani. In un recente sondaggio della rivista analisipolitica.it diretta dal sociologo Arnaldo Ferrari Nasi e pubblicato da Libero il 7 maggio, risulta infatti che il 77% dei nostri concittadini dichiari le toghe non più credibili auspicando che il potere giudiziario perda la propria indipendenza (consacrata da Montesquieu) così da essere controllato da un nuovo organo indipendente.
Ed è ben l’88% che vorrebbe una riforma profonda del sistema.
Chissà che cosa avrebbe detto di questa situazione il giudice Rosario Livatino, ucciso dalla mafia il 21 settembre del 1990, e che oggi 9 maggio viene beatificato nella cattedrale di Agrigento, con una cerimonia presieduta del cardinale Marcello Semeraro, Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi.
Livatino fu ucciso il 21 settembre del 1990, a soli 38 anni dagli uomini della Stidda, organizzazione mafiosa agrigentina. Le motivazioni vanno ricercate nella sua attività di magistrato presso la procura di Agrigento dove si stava occupato di quella che sarebbe esplosa come la “Tangentopoli siciliana” colpendoduramente la mafia di Porto Empedocle e di Palma di Montechiaro, anche attraverso la confisca dei beni. Nelle motivazioni della sentenza che ha condannato al carcere a vita mandanti ed esecutori dell’omicidio si legge che la sua morte fu decisa perché del Livatino era “Incisiva ma anche sospettata di imparzialità” perché perseguiva le cosche mafiose impedendone l’attività criminale, così che “il suo estremo rigore morale e intellettuale e di impegno totalizzante verso il suo lavoro, unitamente alla sua profonda conoscenza della criminalità operante nel territorio agrigentino rappresentavano una spina nel fianco delle organizzazioni mafiose, che vedevano vieppiù messi in pericolo i loro interessi giudiziari”.
Ma a rendere agli occhi dei mafiosi ingiuriosa e colpevole fino a meritare la morte la sua attività di magistrato era soprattutto la sua professione di fede, che lo rese – come si legge nel decreto sul martirio – “irriducibile a tentativi di corruzione proprio a motivo del suo essere cattolico praticante”.
Rosario Livantino venne ribattezzato, alcuni mesi dopo la sua morte, “il giudice ragazzino” per alcune esternazioni ingiuriose dell’allora Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, rivolte probabilmente contro di lui e altri giovani magistrati impegnati nella lotta alla mafia, accusati di inesperienza allo scopo di screditarli ed evitare che indagassero sui rapporti tra Stato e malavita organizzata. Con questo nome è poi assurto agli onori della cultura popolare anche grazie al pluripremiato film di Alessandro di Robillant, con l’intensa interpretazione di Giulio Scarpati nel ruolo principale.
Dunque chissà cosa avrebbe detto delle faide politiche che avvelenano oggi la magistratura quel giovane giudice integerrimo che in una convegno del 1984 sul ruolo del magistrato disse: “Sarebbe sommamente opportuno che i giudici rinunciassero a partecipare alle competizioni elettorali in veste di candidato o, qualora ritengano che il seggio in Parlamento superi di molto in prestigio, potere ed importanza l’ufficio del giudice, effettuassero una irrevocabile scelta, bruciandosi tutti i vascelli alle spalle, con le dimissioni definitive dall’ordine giudiziario”.
La data scelta per la sua beatificazione non è casuale: fu infatti in questo giorno del 1993 che Papa Giovanni Paolo II nella Valle dei Templi, ad Agrigento, invocò il diritto alla pace per quei territori siciliani e lanciò il proprio anatema contro i mafiosi responsabili della morte di troppe persone innocenti: “Convertitevi! Una volta verrà il giudizio di Dio!”. In quella stessa giornata il Papa, incontrando ad Agrigento i genitori di Rosario, aveva definito Livatino “un martire della giustizia e indirettamente della fede”.
In tempi più recenti, il 29 novembre del 2019, papa Francesco, in un incontro con i membri del Centro Studi a lui dedicato ha detto: “Livatino è un esempio non soltanto per i magistrati, ma per tutti coloro che operano nel campo del diritto: per la coerenza tra la sua fede e il suo impegno di lavoro, e per l’attualità delle sue riflessioni”, aprendo così di fatto la via alla causa della sua beatificazione.
Causa che la Congregazione delle Cause dei Santi Papa ha fondato sull’indagine delle motivazioni dell’uccisione, concludendo che essa è avvenuta in odium fidei, cioè in odio della fede.
Livatino infatti aveva maturato negli anni una fede sempre più salda, tanto da decidere a 35 anni di ricevere il sacramento della Cresima e ogni giorno, prima di recarsi al lavoro, passava a fare visita al Santissimo Sacramento. E in un primo tempo, nei piani dei malavitosi, il delitto avrebbe dovuto avvenire proprio davanti alla chiesa, poiché il capo di uno dei gruppi mafiosi che lo volle morto “lo definiva con spregio santocchio” e di quello voleva punirlo.
Rosario Livatino “era consapevole dei rischi che correva” e continuò ad esercitare il proprio ministero di Magistrato con rettitudine giungendo “ad accettare la possibilità del martirio” come si continua a leggere nel Decreto per la sua beatificazione, tanto da rinunciare alla scorta per non esporre a pericoli altre persone, preferendo accettare il rischio per la sua vita piuttosto che pregiudicare l’esistenza di persone la cui morte avrebbe lasciato “vedove e orfani”. Anche per questa ragione oggi la camicia che Livatino indossava il giorno del suo assassinio e che fu macchiata col suo sangue, già reperto dei vari processi della Corte d’assise a Caltanissetta dove ha trascorso negli armadi blindati del Tribunale quasi 31 anni, verrà esposta come reliquia ai 200 invitati alla Messa di beatificazione.
In un’intervista, don Giuseppe Livatino, suo omonimo e uno dei promotori della sua beatificazione, ha dichiarato: “Livatino fu estremamente riservato e schivo a ogni palcoscenico. Non volle mai far parte di gruppi, associazioni o club-service. Non c’è una sua intervista in 12 anni da magistrato. Mai dalla sua bocca uscì una sola indiscrezione sulle indagini che andavano svolte nel riserbo cercando prove e riscontri”.
Chissà che qualcuno dei suoi colleghi di oggi possa prendere esempio dal suo senso di dignità per la funzione pubblica che era stato chiamato a ricoprire.
Elisa Rocca
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