Tre anni per girarlo, ma ne valeva la pena. Oggi alla Festa del Cinema di Roma Lo chiamavano Jeeg Robot, di Gabriele Mainetti, è il primo film italiano presentato per la selezione ufficiale e quanti si aspettavano la contraffazione nostrana dei classici blockbuster americani sui supereroi hanno ricevuto una piacevole sorpresa.
Lo chiamavano Jeeg Robot è un film tutto italiano, anzi tutto romano, che sembra raccontare la storia di un piccolo criminale di borgata che per caso, venendo a contatto con una sostanza radioattiva, acquisisce poteri straordinari. Ma in realtà il film va decisamente oltre la semplicità del concetto iniziale su cui si fonda. La storia è costruita seguendo quasi alla perfezione l’impianto drammaturgico dei classici film sui supereroi a cui Hollywood ci ha ormai abituato, ma Mainetti è riuscito a trovare una chiave del tutto originale che fa di questo film un unico nel panorama del cinema.
I richiami al mondo dei fumetti calati nella realtà di una borgata romana rischiavano di far scadere la storia con estrema facilità nel ridicolo, ma regista e sceneggiatori hanno saputo fare di questa debolezza la vera forza del film. Perché Lo chiamavano Jeeg Robot mette insieme due aspetti vincenti: l’autoironia e una certa analisi introspettiva dei personaggi. Così mentre da un lato si ride, e di gusto, su scene costruite con quel sarcasmo proprio di chi riesce a non prendersi troppo sul serio e che ricorda un po’ quello di Tartino in Pulp Fiction, dall’altro la storia si fonda tutta su personaggi ben costruiti.
Si tratta indubbiamente di un film per stomaci forti. Alcune scene sono di una violenza quasi brutale, pur restando nell’ambito dello splatter fumettistico. Ma al di là di questo, il film mostra livelli di lettura multipli e anche per certi aspetti profondi da un punto di vista umano. In effetti lo squallore degli ambienti in cui sono calati i personaggi crea un contrasto interessante con lo spessore umano con cui questi sono costruiti. Ogni personaggio ha un suo ambiente caratterizzante, così nell’insieme, nonostante la situazione abbia del surreale, l’intera storia risulta non solo credibile, ma anche coinvolgente e a tratti persino commuovente.
E’ affascinante accorgersi ad esempio che la vera metamorfosi di Enzo Ceccotti, interpretato da un perfetto Claudio Santamaria, non è quella scontata da piccolo criminale a uomo dotato di poteri straordinari, ma quella che porta il protagonista a scoprire di essere nel profondo una persona buona e capace di sentimenti forti, sinceri e positivi. Ed è l’amore, proprio come accade nella realtà più vera, generoso, spontaneo e folle di una giovane donna che lo spinge a cambiare in meglio e fa passare Enzo da super criminale a vero super eroe. Anche la figura del cattivo, lo Zingaro, interpretato da un credibilissimo Luca Marinelli, esce dai consueti canoni del genere per approfondire aspetti umani che fanno riflettere. Come il suo interesse smisurato e assurdo verso l’immagine e l’apparire sui social, che sfocia in una follia del tutto scollegata con la realtà, tanto da compiacersi di comparire in rete attraverso un video che lo riprende mentre compie gesti atroci e disumani.
Tutto il film gioca con equilibrio sul sottile confine tra fantasia e realtà, immaginazione e verità, quasi come se l’una giustificasse o spiegasse l’altra, ma senza creare mai confusione. Per questo Lo chiamavano Jeeg Robot, pur non essendo affatto un film per ragazzi, si presta con disinvoltura a diversi generi, dal comico, al sentimentale, al fantastico, offrendo ad un vasto pubblico innumerevoli spunti e piani di lettura.
Gli applausi seguiti alla proiezione per la stampa oggi alla festa del cinema di Roma dimostrano che non servono grandi produzioni per poter creare ottimi film.
Vania Amitrano
Laureata in Lettere, amante dell’arte, dello spettacolo e delle scienze umane, autrice di testi di critica cinematografica e televisiva. Ha insegnato nella scuola pubblica e privata; da anni scrive ed esplora con passione le sconfinate possibilità della comunicazione nel web.
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