Anche oggi è altissima la tensione al confine tra Grecia e Macedonia, dove ieri un gruppo di circa cinquecento migranti è riuscito a superare il cordone di polizia e le barriere di filo spinato sfruttando un varco ferroviario.
La polizia macedone ha respinto i migranti, che avevano iniziato a lanciare sassi e gridare “Aprite la frontiera”, sparando lacrimogeni ad altezza d’uomo. I feriti sono una trentina. Per bocca del portavoce Margaritis Schinas, che ha ricordato la “necessità di agire in conformità al diritto internazionale”, la Commissione UE ha bacchettato il governo di Skopje. Le scene di ieri “ci preoccupano molto” – ha detto Schinas – ma d’altra parte “dimostrano che l’unica soluzione è quella europea”.
Sul versante greco del confine, in condizioni igieniche precarie e con pochi viveri, sono accampate circa 6.500 persone, alcune anche da otto giorni. Nei giorni scorsi, i governi di Macedonia, Serbia, Croazia, Slovenia e Austria – tappe della “rotta balcanica” che porta in Europa occidentale i migranti in fuga dal Medio Oriente, dopo aver attraversato la Turchia, l’Egeo e la Grecia – hanno concordato di consentire la traversata a non più di 580 persone al giorno. Secondo i calcoli di Atene, a questo ritmo a marzo resteranno bloccati nei confini greci da 50 a 70 mila migranti.
La Grecia, che non è stata invitata al vertice degli altri Stati balcanici ed è obbligata a soccorrere i naufraghi dei “viaggi della speranza” salpati dalla Turchia, non ha alcuna intenzione di diventare il “Libano d’Europa” o un “magazzino di anime”. Entrambe le espressioni sono state usate nei giorni scorsi dal ministro per le Politiche migratorie Ioannis Mouzalas.
Intanto a Calais, nel nord della Francia, sono riprese le operazioni di sgombero della parte sud della Giungla, la tendopoli abitata da qualche migliaio di migranti in attesa di imbarcarsi per la Gran Bretagna.
Ieri lo sgombero è stato interrotto perché le proteste di migranti e attivisti no-border sono degenerate in scontri con i circa duecento agenti di polizia schierati a difesa degli operai incaricati di smontare le tende e abbattere le baracche lasciate libere.
Poco dopo l’inizio dei lavori, alle otto e mezzo del mattino, circa venti baracche sono state incendiate. Secondo le forze dell’ordine si sarebbe trattato di un’iniziativa presa dagli stessi attivisti per sabotare lo sgombero.
Per tutta la giornata la tensione non ha fatto altro che salire: in tarda mattinata anche qui sono iniziati i lanci di sassi, ai quali gli agenti hanno reagito con i lacrimogeni. Verso le cinque del pomeriggio l’intensità degli scontri ha convinto la polizia a fermare le demolizioni e ripresentarsi stamattina; ma si è assistito a episodi sporadici di violenza ancora per tutta la serata. Il bilancio di ieri è stato di cinque agenti feriti – nessuno in modo grave – e quattro fermi.
Secondo quanto ha detto il prefetto Fabienne Buccio, uno spiegamento di forze così massiccio – ieri c’erano circa dieci agenti per ogni operaio impegnato nello sgombero – si è reso necessario dopo le “aggressioni verbali e fisiche” subite nei giorni scorsi dagli operatori arrivati nel campo per cercare di convincere i migranti a trasferirsi nei centri allestiti dallo Stato.
Giovedì scorso, il tribunale amministrativo di Lille aveva deciso di smantellare una parte della tendopoli e proporre ai profughi il trasferimento in centri d’accoglienza o in container attrezzati, nella parte nord della Giungla. Il governo del presidente François Hollande aveva promesso che lo sgombero sarebbe stato “umanitario” e “progressivo”. I migranti si sono opposti per paura di essere costretti a richiedere asilo in Francia, e quindi dover rinunciare ad andare in Inghilterra. Secondo gli attivisti, invece, le autorità avrebbero messo a disposizione troppo pochi posti letto rispetto alle necessità.
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