Nelle primarie dello stato di New York, in vista delle presidenziali USA di novembre prossimo, vincono i favoriti: Hillary Clinton fra i democratici, Donald Trump fra i repubblicani. Ma stupisce il margine di vantaggio con cui si sono imposti. L’ex segretario di Stato Clinton ha staccato il rivale, il senatore Bernie Sanders, di ben 16 punti: ha votato per lei il 58% degli elettori democratici, contro il 42% a favore di Sanders.
Ancora più netta l’affermazione del miliardario Trump, che si impone con il 60% nonostante gli sfidanti in corsa siano ancora due, il governatore dell’Ohio John Kasich e il candidato del Tea Party Ted Cruz. La sconfitta di Kasich, fermo al 24%, può essere una mezza soddisfazione: il governatore ha consensi bipartisan nel suo Stato, ma fuori dai confini dell’Ohio lo conoscono in pochi. Invece quella di Cruz, che ha ottenuto solo il 15% nonostante il sostegno delle alte sfere del Grand Old Party, è un’autentica disfatta.
Sanders ha preso atto della sconfitta ed è ripartito per la Pennsylvania molto prima dell’ufficializzazione dei risultati. Il senatore del Vermont aveva presentato un ricorso contro la scomparsa di 125 mila nomi dai registri elettorali di Brooklyn, il borough dov’è nato e dove si concentrano i suoi sostenitori nella Grande Mela. Ma la vittoria netta della Clinton in uno Stato così popoloso – quasi 20 milioni di abitanti, quarto negli USA dopo California, Texas e Florida – sembra dimostrare che la carica sovversiva di Sanders si stia per esaurire. Il senatore indipendente, che si professa socialista – un’eresia nel discorso politico americano – e ha riacceso l’entusiasmo degli elettori più giovani, ha fatto prendere qualche bello spavento all’establishment dem, che sostiene compatto la Clinton, ma ormai non lo impensierisce più.
Non a caso, l’ex segretario di Stato è già al lavoro per ricompattare il partito per la convention che si terrà a fine luglio a Philadelphia. “Con i sostenitori di Bernie sono molte più le cose che ci uniscono di quelle che ci dividono”, ha dichiarato durante il discorso di ringraziamento, nell’hotel Sheraton di Times Square. Sul palco, insieme al marito – l’ex presidente Bill Clinton –, al sindaco Bill De Blasio e al governatore dello Stato Andrew Cuomo, ha ricordato la tradizione progressista che va “da Franklin D. Roosevelt a Barack Obama”. E anticipa già i temi dell’election day di novembre: “Trump è un pericolo per l’America, ci vuole dividere, tratta gli immigrati come criminali. È tutto il contrario dei valori sui quali è costruita l’America”.
Ben diverso è il discorso in campo repubblicano. Ormai il partito non fa più mistero di voler arginare a qualsiasi costo l’ascesa di Trump, e i toni della rivalità si sono esasperati. Ma l’ostruzionismo del GOP ha permesso al miliardario di mettere l’accento sulle macchinazioni di cui sarebbe vittima, facendo incetta di voti e dimostrando una volta di più la profondità dell’abisso che separa la leadership dagli elettori.
L’establishment repubblicano spera ancora che alla fine delle primarie Trump non raggiunga il quorum di delegati, fissato a quota 1.237, che gli permetterebbe di presentarsi alla convention estiva di Cleveland con la candidatura in tasca. In una open convention, cioè in assenza di un candidato assicurato, i delegati possono sempre essere convinti a cambiare idea, con tutti gli strascichi e i veleni conseguenti. Ma uno scenario del genere appare sempre meno probabile a mano a mano che Trump fa incetta di voti in giro per gli USA. Sempre più addetti ai lavori si stanno convincendo che la sua vittoria sia inevitabile, e che quindi sia meglio assecondarlo – magari provando a influenzarlo – che rendere ancora più aspre le lotte intestine. L’ultimo della lista è l’ex sindaco di New York, Rudolph Giuliani, che ieri si è detto favorevole alla prima ipotesi.
Trump, come al solito, non si è risparmiato. Ha aperto il discorso ricordando che “Ted Cruz si avvia a essere matematicamente eliminato dalla corsa alla nomination”. Poi, dopo i ringraziamenti di rito, ha ricordato la sua “grande ammirazione per la città di New York”, dove è nato, nel Queens: “Questa vittoria vale più di ogni altra”.
Lo Stato di New York è bagnato dall’Atlantico, la sua popolazione è ricca, istruita e abita per lo più in città: tutto questo ne fa l’habitat ideale per i democratici. Eppure Trump è riuscito a portare migliaia di nuovi votanti alle primarie repubblicane. Un travaso di voti del genere non si vedeva dai tempi di Giuliani, un altro repubblicano atipico allergico alla linea del partito. La sua affermazione – e la débacle di Cruz – si potrebbero rivelare importanti anche sul piano psicologico, oltre a quello dei numeri.
Le prossime primarie cadono il 26 aprile, il “piccolo supermartedì della Costa est”. Gli elettori di entrambi i partiti voteranno in Connecticut, Delaware, Maryland, Pennsylvania e Rhode Island: cinque delle tredici colonie, gli Stati originari degli USA, la cui composizione economica e sociale ricorda quella di New York, anche se gli abitanti – con la parziale eccezione della Pennsylvania – sono molto meno numerosi. Intanto si avvicina il gran finale delle primarie: il 7 giugno si voterà in California, che da sola ha 40 milioni di abitanti, e in altri quattro Stati.
F.M.R.
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