Alberto Stasi resterà in carcere per l’omicidio della fidanzata Chiara Poggi. La Cassazione ha confermato la sentenza del secondo processo di appello, che lo ha condannato a 16 anni di reclusione.
La Corte ha giudicato inammissibile il ricorso straordinario dei legali di Stasi, che ritenevano di essere stati penalizzati da vizi di forma nell’appello-bis.
“Il rigetto di quest’ulteriore ricorso – commentano Gian Luigi Tizzoni e Francesco Compagna, legali della famiglia Poggi – “conferma” che la condanna è frutto “di un giusto processo, grazie alle prove schiaccianti faticosamente acquisite dalla Corte di Assise di Appello di Milano”. “Anche nei momenti più difficili”, aggiungono gli avvocati, “la famiglia Poggi ha sempre creduto nella giustizia, senza mai cercare giudizi sommari”.
Chiara Poggi fu uccisa la mattina del 13 agosto 2007 nella villetta di Garlasco, in provincia di Pavia, dove viveva con i genitori e il fratello. Fu lei ad aprire la porta all’assassino, che l’ha uccisa colpendola alla testa con un oggetto contundente mai identificato. A dare l’allarme fu lo stesso Stasi, il fidanzato della Poggi. Ma la sua versione dei fatti era contraddittoria, e i suoi vestiti e le sue scarpe non avevano la minima traccia di sangue, mentre il DNA della fidanzata era sui pedali della sua bicicletta.
In primo grado, nel 2009, Stasi fu assolto per insufficienza di prove. La Corte d’Appello di Milano confermò l’assoluzione “per non aver commesso il fatto” due anni dopo. La Cassazione annullò questa sentenza e dispose la ripetizione del secondo grado, che si concluse nel 2014 con la condanna a 24 anni di carcere, divenuti 16 perché il processo si è svolto con il rito abbreviato. Anche questa sentenza è stata impugnata in Cassazione, ma questa volta la Suprema Corte l’ha convalidata, il 12 dicembre 2015, sebbene il procuratore ne avesse chiesto l’annullamento.
Dopo la pubblicazione della sentenza definitiva, i legali di Stasi hanno annunciato di voler presentare un altro ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
F.M.R.
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