Il dolore profondo e incolmabile per la morte prematura, nel novembre del 2017, del figlio amatissimo Alessandro, l‘aveva affidato ad una lettera bella e struggente pubblicata su “La Verità” pochi giorni dopo.
Quel commovente saluto si portava dietro un tragico presagio. La volontà di non vivere a dispetto di quella morte. Paolo lo sapeva e alle persone più vicine a lui, a cominciare da Adele, sua compagna di vita, lo confidava con voce rotta dall’emozione.
Gli ultimi tempi dava l’idea di essere molto stanco. Lo avevo sentito prima di Natale e parlava a fatica anche se lo spirito, come il vocione dirompente e simpatico da monferrino dissacrante, era quello di sempre.
Gli avevo chiesto quando sarebbe venuto a Roma. Avevo una gran voglia di rivederlo. Mi aveva risposto: “Rispetta i vecchi… Non mi muovo quasi più dalla Toscana. Vieni tu qui a San Casciano. Stiamo insieme a pranzo e parliamo un po’”.
Giampaolo era così. Diretto e coinvolgente. All’occorrenza, caparbiamente tignoso, nel lavoro come nella vita. Per chi lo conosceva poco, poteva apparire anche brusco ma in fondo, sotto la sua solidità di piemontese rude, si nascondeva una sensibilità ed un rispetto per il prossimo che solo i grandi uomini possono offrire.
Non disdegnava il confronto e se necessario lo scontro. Curioso ed intelligente, ha scrutato a fondo e scarnificato, per quasi sessant’anni, pregi e difetti del popolo e della società italiana.
Memorabile quel binocolo con cui, negli anni Settanta e Ottanta, si presentava nei fumosi e rissosi congressi dei partiti, scrutando attentamente facce, parole e funambolismi della politica italiana. Poi quelle “occhiate” diventavano pezzi incredibili, con tutto il meglio (poco) ed il peggio (tanto), di questo nostro disgraziato Paese da lui amato, ma dove non trovava più quella lungimiranza, quella correttezza ed onestà umana e intellettuale nelle quali credeva profondamente.
Il sodalizio con Eugenio Scalfari all’Espresso prima e a Repubblica poi, insieme all’esperienza maturata in quasi tutti i maggiori giornali italiani, dal Corriere della Sera, dove Giampaolo Pansa era tornato a scrivere dal mese di settembre dello scorso anno, dopo 43 anni di assenza da via Solferino, alla Stampa, al Giorno, al Messaggero, a Panorama, avevano fatto di lui un autentico gigante del giornalismo italiano.
Cronista imbattibile dell’Italia uscita dalla guerra e di quella consolidatasi con il boom economico, nel 1968, con un libro sulle vicende delle decine di migliaia di ragazzi che avevano deciso di seguire Mussolini nella sua ultima avventura a Salò, si cimenta con la lente di ingrandimento della Storia.
Ma è nel 2003, con la pubblicazione de “Il Sangue dei vinti”, il primo libro di una lunga serie sull’argomento, che Giampaolo rompe un tabù tanto caro alla memorialistica resistenziale comunista e non: la verità sul dopo 25 aprile 1945. Una storia ignorata ma non per questo meno tremenda su quanto accaduto in un contesto, durato fino a tutto il 1946: il castigo dei vincitori sugli sconfitti.
Una storia atroce fatta di massacri di massa indiscriminati per chi aveva indossato una divisa o aveva semplicemente aderito alla Rsi. Una giustizia sommaria che spesso non risparmiò innocenti. Una storia fatta di esecuzioni, stupri, rapine, sparizioni, torture dettate dall’odio e dalla voglia di vendetta sostenuta dalla molla ideologica di chi, dietro quei massacri efferati, voleva perseguire l’obiettivo di una rivoluzione comunista nel nostro Paese.
Un orrore che alla fine avrebbe presentato un bilancio tragico fatto di decine di migliaia di morti ammazzati. La contabilità tremenda dei frutti avvelenati di una guerra civile che segnò allora profondamente il Paese e che ancora oggi riesce a dividere malgrado da quei fatti luttuosi siano trascorsi più di settantacinque anni.
Scrivere quelle cose gli costò caro. Coloro che lui aveva sempre definito nei suoi libri “I custodi della memoria” ovvero “I mastini del tempio” che proteggevano “la grande bugia”, ovvero gli intellettuali di sinistra cominciarono a sparargli addosso da subito, non perdonandogli la scelta di scrivere una pagina di storia strappata e volutamente tenuta nascosta per tanti anni.
Diventò dapprima “il revisionista”. Poi “il fascista Pansa”. L’accusa? L’aver infranto le regole non scritte delle verità “intoccabili” ovvero quelle delle bugie di regime.
Ma il grande lavoro di Giampaolo, autentico maestro di vita, fu quello di denunciare sempre e comunque tutto ciò che tradiva gli ideali che lui, da uomo e intellettuale di sinistra prima e da liberale poi, difendeva senza concessioni di sorta: l’amore per l’Italia, la libertà, l’onestà e la giustizia, valori che, a suo giudizio, dovevano connotare chi assumeva la responsabilità di guidare, nel nome della democrazia, le sorti del Paese.
Enzo Cirillo
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