Il post-umano è qui. Più vicino di quanto si pensi, più presente di quanto riusciamo effettivamente a percepirlo. Non si mostra apertamente, in tutto il suo splendore, ma si fa vedere, tra un fotogramma e l’altro di una serie televisiva. Ebbene sì: ha scelto quel veicolo, per giungere tra noi. Eppure non ce ne rendiamo conto, perché non ha voluto entrare in questo nostro mondo post-moderno accompagnato da grandi proclami o da inutili trionfalismi, ma ha deciso di mostrarsi e di non mostrarsi. Disvelamento, lo chiamavano i filosofi. I più critici affermano che “il post-umanesimo deve ancora instaurarsi, deve ancora accadere, deve ancora porre la propria impronta” (N. Badmington, Podalmighty!; or, humanism, posthumanism, and the strange case of Invasion of the Body Snatchers): un fondo di verità, forse c’è. Infatti, “un mondo post-umano dovrebbe essere costituito in un modo umanamente impensabile” (D. Roden, A defence of precriticalposthumanism), e fuori dall’umano non siamo troppo abituati a pensare. Forse possiamo pensare al post-umanesimo come ad un virus, un piccolo esserino che s’intromette nelle nostre fragili esistenze (per mezzo di un respiro, di una serata passata davanti alla televisione con amici, e così via), cambiandole dal di dentro e scavando lentamente, fino a farci diventare – in maniera inaspettata – totalmente diversi da come eravamo. Ecco perché ha scelto le grandi narrazioni – prime tra tutti, quei capolavori stilistici odierni che sono le serie televisive americane – per arrivare a noi: in modo innocuo, e spesso celato dietro a una grande ripresa o adun personaggio capace di emozionarci e di creare empatia. Che cos’è il post-umanesimo, dunque? Se volessimo procedere per via esclusiva, dovremmo dire che non si tratta essenzialmente di cyborg o robot, di mind downloading o di Robocop. Non è la tecnologia – al cospetto della quale l’uomo è un essere antiquato, come amava ripetere Gunther Anders – il punto nodale del postumanesimo. Si tratta, invece, di un’idea semplice, e, forse, antica quanto il mondo: che l’uomo abbia, ossia, da perdere i propri confini, per guadagnare un’unione più profonda con il tutto. Ibridazione. Ibridazione, Morpheus, ibridazione. Direbbe l’Agente Smith. Guarda dalla finestra: avete fatto il vostro tempo. Il futuro è il nostro mondo, Morpheus. Il futuro è il nostro tempo. Il futuro è un’altra cosa. Rimarrà pur sempre un’ipotesi, possiamo scommetterci, ma un’ipotesi senza confini. Non ci saranno più uomini o donne, animali umani o non-umani, vertebrati o invertebrati. Almeno, presi singolarmente. Per il postumanesimo “l’umano non è più l’espressione dell’uomo, ma, piuttosto, il risultato di un’ibridazione dell’uomo con le alterità non-umane” (R. Marchesini, Ruolo delle alterità nella definizione dei predicati umani). Così, non esisterà “nulla di esterno all’uomo, poiché l’estensione dell’umano non può essere fissata” (R. Pepperell, The Posthuman Manifesto): tutt’uno con il tutto. Zoé, o principio della vita, lo chiamavano gli antichi. La vita è un flusso che scorre, e noi non siamo altro che particelle insignificanti in questo processo, uomini senza un volto definito. L’uomo senza volto. Al post-umanesimo non piace l’individuo (così come non piace a Legends: A Novel of Dissumulation), perché, in ultima analisi, l’uomo è limite. È fragilità, debolezza, paura, inconscio, detto e non-detto, sproporzione. Paura dell’infinito. Ecco cos’è l’uomo, ecco qual è la malattia mortale. Per questo ci dobbiamo ibridare, mischiare carnalmente con gli altri esseri: per abbandonare la nostra fragilità – che poi, in fin dei conti, è anche la nostra bellezza, perché è lì che sorge la nostra capacità di amare e di accogliere veramente l’altro. Ma in un mondo postumano non ci sarà più l’amore, non sarà necessario. Che te ne fai della relazione – della relazione vera, quella per cui puoi guardare l’altro negli occhi e dirgli: “Tu non morirai!”, come ricordava Gabriel Marcel – quando non c’è l’individuo? Accidente sostanziale: ecco cos’è la relazione, diceva Aristotele. Non è la sostanza, ossia non si regge da sola, ma ha bisogno dell’altro. Nel postumanesimo non avremo più bisogno dell’altro. O, meglio, non avremo più il desiderio dell’altro. L’altro sarà utile solo per soddisfare i nostri bisogni basilari – che è anche il bisogno di essere “oggetto d’ammirazione”, come ricorda 1992. Che coincide, in ultima analisi,con la morte dell’altro. L’amore che diventa sesso, il tu che diventa io, il noi che diviene impossibile, la libertà che diviene un limite: ecco i segreti di The House of Cards e di Breaking Bad. E poi ci sono le conseguenze, perché ci son sempre delle conseguenze: l’indifferenza morale, l’incapacità di pensare ad una società come riflesso della philia, la forza come giustizia – Lilyhammer ci ha insegnato a rinnegare una società “apparentemente” giusta come quella norvegese – e la società dei diritti, dove nessuno vuole avere più doveri. Un tuffo nel passato verso Hobbes: homo homini lupus. Però stavolta l’uomo è davvero un lupo famelico, o almeno tende a diventarlo. In questo senso il postumanesimo diviene anche capace di plasmare la nostra società, che pare essere caratterizzata da “uno strabismo sessuale generalizzato, che riflette quello dei valori morali e culturali: il vero adocchia il falso, il bello adocchia il brutto, il bene adocchia il male, e viceversa. Essi si collegano l’uno all’altro, nel tentativo di deviare i loro segni distintivi. In realtà sono complici per mettere in cortocircuito la differenza” (J.Baudrillard, Il delitto perfetto: la televisione ha ucciso la realtà?). Stiamo navigando – ormai a vista – verso una società post-umana, post-sessuata, post-specifica, post-metafisica e post-morale. Come se il post- fosse sempre desiderabile. Come se l’uomo fosse davvero antiquato. Eppure, nel nostro desiderio d’infinito, d’eternità e di comunione con tutto il creato – tutte belle aspirazioni, s’intende – siamo da sempre attuali. Da quando Adamo ha risposto all’appello di Dio – “Dove sei?” “Ero nudo e mi sono nascosto” – l’uomo non ha mai smesso di desiderare l’oltre. Un desiderio post-umano, troppo umano.
Dr. Luca Valera Docente di Filosofia Antropologica, Campus Bio Medico
www.istantv.it
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