Solo domenica prossima sapremo se e come il Consiglio superiore della magistratura, ovvero l’istituzione che garantisce l’indipendenza e la cosiddetta autonomia della magistratura secondo quanto previsto dalla Costituzione italiana, sarà riuscito a ricompattare gli equilibri interni lacerati dalla vicenda Palamara-Grasso.
A mio modesto avviso domenica 16 giugno non accadrà nulla di eclatante. Finirà con un compromesso a più livelli perché, alla fine, tutto resti ingessato come prima. Lo status quo in materia di tribunali non si discute, non si baratta. Resta e basta. Le attese degli italiani per una giustizia non inquinata dalla politica, possono attendere.
Lo spettacolo offerto finora è indecente e preoccupante al tempo stesso. E conferma ciò che moltissimi italiani pensano apertamente e cioè che la magistratura è da sempre nella partita che si gioca in Italia per il controllo della stanza dei bottoni. Per cui parlare di autonomia, indipendenza, sacralità del ruolo dei giudici e tutto ciò che riguarda le toghe è una colossale penosa bugia caratterizzata da ipocrisia fatta di lotte all’ultimo sangue all’interno di un bastione corporativo mai messo seriamente in discussione da nessun governo della Repubblica.
Destra e sinistra attraverso riforme mai fatte (a cominciare dalla sacrosanta divisione delle carriere e dalla preclusione della attività politico parlamentare) che mettessero veramente in discussione ruolo e strategie dei magistrati, non sono mai volute andare fino in fondo.
Quella magistratura (ovviamente non tutta) legata al Palazzo, cioè al mondo che decide, in fondo ha sempre fatto comodo a tutti. Minacce, avvisi, ricatti e sentenze di comodo riescono a tenere in equilibrio anche l’impossibile. E questo lo sanno i gli uomini di partito come magistrati, che, lo si voglia o no, sono stati, sono e resteranno sempre, targati politicamente. Soprattutto a sinistra.
Enzo Cirillo
Per un resoconto fedele della feroce guerra per bande in corso ai vertici del Csm a Palazzo dei Marescialli, ci affidiamo alle fatiche del collega del Giornale Luca Fazzo che ringraziamo e che di seguito riportiamo.
Faida tra toghe sulle poltrone Anm in tilt, il Csm è a rischio
Tre correnti sfiduciano la giunta, il presidente Grasso lascia Mi. Lo scontro vero è su Palazzo de’ Marescialli
La domenica dei lunghi coltelli della magistratura italiana inizia alle nove e un quarto del mattino, con un comunicato affidato alle agenzie di stampa dai portavoce di tre correnti.
Area, Unicost, Autonomia e Indipendenza: schematizzando, la sinistra, il centro e i «grillini» di Piercamillo Davigo. Tutti inferociti con la quarta corrente, la destra di Magistratura Indipendente, colpevole di voler tenere al loro posto i tre suoi membri del Csm coinvolti – ma non ufficialmente indagati – nell’inchiesta di Perugia. «Ritirate l’autosospensione e tornate in servizio», dice Mi ai suoi. «Dimettetevi immediatamente», ribattono gli altri. Ne nasce uno scontro lacerante, che spacca in profondità la magistratura italiana, e apre le porte a qualunque scenario.
Purtroppo in ballo non ci sono solo valori «alti», lo scontro non è solo e non tanto tra garantisti e giustizialisti. Di mezzo c’è l’occupazione del potere, la lotta per le poltrone all’interno del Csm. Se i tre consiglieri moderati si dimettessero, i loro posti verrebbero presi da uno di sinistra e da due grillini. Se invece il Csm si dimettesse in blocco e si tornasse a votare, la corrente di Davigo probabilmente sparirebbe (anche perché il suo fondatore non potrebbe più candidarsi, essendo proibiti due mandati consecutivi) e la destra potrebbe puntare a fare il pieno di voti. Così (o anche così) si spiega la contrapposizione frontale di queste ore.
Che la «questione morale» emersa dalle carte dell’indagine di Perugia si riduca a guerra di potere e di seggiole può sembrare grottesco. Di sicuro c’è che nessuna delle correnti è disposta a fare un passo indietro, a fare mosse che avvantaggerebbero gli avversari. «Area» nel pomeriggio di ieri con un suo comunicato cerca di riportare la discussione su toni più nobili, indicando i pericoli che corrono «non solo l’autogoverno della magistratura, ma la stessa giurisdizione, la sua autonomia e la sua indipendenza». Ma anche stavolta senza una riga di autocritica per i lunghi anni di partecipazione alla lottizzazione selvaggia delle cariche.
Il pericolo, dicono le «toghe rosse», è che se Magistratura Indipendente non convince gli autosospesi a dimettersi, a venire spazzato via sia l’intero Csm. Prospettiva realistica, indubbiamente. Il primo a non tollerare un Consiglio superiore che restasse per intero al suo posto come se nulla fosse accaduto sarebbe il suo presidente, ovvero il capo dello Stato. Sergio Mattarella lo ha spiegato con chiarezza al vicepresidente, David Ermini, quando lo ha convocato al Quirinale. Ermini è corso a riferirlo ai quattro autosospesi. Loro hanno preso tempo in attesa degli eventi. Ora, dopo l’appello di Magistratura Indipendente, hanno un buon motivo per restare al loro posto. Se Mattarella non vuole vederli più a Palazzo de’ Marescialli dovrà liquidare l’intero Csm.
L’aspetto più singolare è forse che a tirare le fila dello scontro, dettando la linea dura a Magistratura Indipendente, sia Cosimo Ferri: che è il leader storico della corrente, ma è anche deputato del Partito democratico, e che era presente (non si sa in quale delle due vesti) agli incontri intercettati dalla Procura di Perugia nell’inchiesta per corruzione a carico di Luca Palamara, leader di Unicost. È Ferri l’ispiratore del documento con cui la corrente ha deciso di salvare il posto ai consiglieri coinvolti nell’indagine: approvato all’unanimità, con la sola astensione di Pasquale Grasso, da appena due mesi presidente dell’Anm. Che in serata abbandona la corrente ma mantiene la carica.
Luca Fazzo –Il Giornale 10/06/2019
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