“Abbiamo comunque vinto”. I toni rassicuranti ma poco convinti dei vertici del Pd non riescono a nascondere del tutto l’imbarazzo e il malessere che l’esito delle elezioni regionali sta provocando al largo del Nazareno. Non c’è dubbio che qualcosa di importante sia avvenuto ma questo non significa che vada comunque letto come qualcosa di positivo di molto positivo per il partito democratico e per la sinistra più in generale. Tutt’altro.
Il presidente del Consiglio Matteo Renzi tace, non parla, non twitta. E probabilmente ha fatto la scelta migliore rispetto ad un quadro politico post elettorale che rischia di complicare non poco la vita del governo e soprattutto quella delle riforme che si intendono portare a casa in tempi accettabili. Le elezioni regionali di ieri hanno rimesso in discussione tante cose, certezze comprese. Dalle urne escono una marea di indicazioni politiche, sociali, economiche.
La considerazioni più importanti riguardano proprio gli assetti di governo, quelli dei partiti e infine delle istituzioni. La prima che balza agli occhi è che la macchina da guerra Renzi perde colpi. Non vince più l’enfant prodige della Leopolda. Almeno non vince più a mani basse. Batte l’avversario ai punti ma rischia molto grosso se a quell’avversario dovesse concedere una rivincita con il titolo di Palazzo Chigi in palio. Su sette regioni il Pd vince in cinque ma ha rischiato fino all’ultimo di perdere oltre alla Liguria, finita al forzista Toti, anche due centri di potere roccaforti della sinistra da sempre: l’Umbria e la Toscana. In un’altra isola elettorale come la Campania il Pd eredita un trono quello di Vincenzo De Luca minato dalle polemiche, dai veleni e dalla legge Severino che in una ipotesi, nemmeno tanto peregrina, potrebbe portare a nuove elezioni in tempi strettissimi.
Ma il problema politico che dovrebbe preoccupare di più Renzi è il rassemblement che la consultazione ha provocato nei confronti dei nemici esterni e di quelli interni al partito. E qui troviamo le novità più esplosive. Le regionali 2015 fanno brillare due poli in grande spolvero, il movimento 5 stelle di Grillo che senza “impresentabili” nelle proprie liste, si è rivelato più aggressivo e gasato del solito e soprattutto la Lega di Matteo Salvini, anche questa connotata solo da facce pulite, che fa stravincere Zaia in Veneto e soccorre Berlusconi in Liguria abbandonando al proprio destino il litigiosissimo centrodestra pugliese. Ma c’è di più. Il movimento pentastellato ha rischiato di diventare (in nottata era ancora sopra al Pd) il primo partito d’Italia.
E tutto questo nel momento in cui il presidente del Consiglio ha dovuto prendere atto che alll’interno del partito chi aveva deciso di fargli pagare la mancanza di dialogo, c’è riuscito alla grande in Liguria, benissimo in Veneto, meno bene ma pur sempre in maniera significativa in Toscana, Umbria, e Puglia dove la destra ha gettato alle ortiche un successo sicuro e dove Emiliano deve ringraziare per la propria elezione Schittulli, la Poli Bortone e quella grossa fetta di elettorato moderato che non ha voluto partecipare al massacro tra gli amici di Silvio Berlusconi e quelli di Raffaele Fitto.
Ci sono poi le indicazioni più importanti e riguardano le ragioni del voto e soprattutto la disaffezione degli elettori che ha convinto un italiano su due a starsene a casa. Tra la gente c’è indubbiamente stanchezza. Stanchezza e malavoglia legate soprattutto alla mancata soluzione di tanti pressanti problemi. La paura del fenomeno immigrazione, la crisi economica che fa sentire ancora fortissimi i propri effetti su famiglie e imprese, il fisco soffocante, la corruzione, la macchina dello stato che non funziona. Ad alcuni di questi temi Lega e M5s hanno offerto una corsia preferenziale che ha trasformato i mugugni in consensi. E qui stanno forse le ragioni di quella che il Pd e i suoi alleati dell’Ncd e del simulacro di Scelta civica, ormai praticamente scomparsi, non possono considerare più come una vittoria ma solo una preoccupante sconfitta.
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