Renzi se ne va lasciando orfano e più devastato che mai un Pd dal futuro quanto mai incerto. Con una mossa che ha sorpreso pochi ma che lascia basito un partito senza idee in balia di una sinistra litigiosa e rancorosamente divisa, l’ex premier ha deciso: fonderà un’Italia “viva”. Per combattere, dice lui, Matteo Salvini e la grande ondata di consensi che in questo momento guarda a destra.
Senza attendere la prossima kermesse della Leopolda per capire cosa ha in testa, alcune riflessioni si impongono. La prima e la più evidente è che nasce l’ennesimo partitino che stavolta, contrariamente a Sinistra Italiana, Leu e Calenda, si collocherà a destra del partito di Zingaretti, guardando al centro dello schieramento politico nazionale con un occhio benevolo al simulacro di una Forza Italia con Silvio Berlusconi ormai al capolinea.
La scissione dal Pd, la quarta in quattro anni, è l’ennesima conferma, che l’Italia che ha voluto il ribaltone di settembre con il Conte bis, è instancabilmente al lavoro. E pensare anche formule ardite per un sistema come il nostro, avvezzo a tutto, non è poi un peccato così imperdonabile. In questo Paese, senza dignità e soprattutto dove le regole del gioco possono essere violate in qualunque momento da chiunque, tutto è possibile.
L’idea di un grande centro liberaldemocratico con qualche pennellata di socialdemocrazia rosée, affiliato all’Italia degli interessi consolidati, delle consorterie degli egoismi e dei poltronisti buoni per tutte le stagioni, piace alla cupola che in Italia, con forti aiuti dall’estero, conduce i giochi da dieci anni a questa parte.
Il golpe dunque continua. Gli ideatori del colpo di Stato organizzato per vanificare il volere degli italiani, democraticamente espresso nelle urne del 4 marzo 2018 ed in quelle del 26 maggio del 2019, hanno spostato il periscopio che dovrà guidare i due siluri che ancora mancano per affondare definitivamente la volontà popolare: il sistema maggioritario con premio di maggioranza e la probabile vittoria elettorale del centrodestra a guida Lega – Fratelli d’Italia, con un ritorno al proporzionale puro, regola aurea della Prima Repubblica.
Ma c’è una seconda considerazione da tenere presente. Con la scissione di Renzi, il nuovo governo Pentastellati – Pd è già sotto tutela. E lo ha capito talmente bene Luigi Di Maio che, appresa la notizia della scissione, ha mandato un preciso messaggio: “Non accetteremo tensioni sul governo. Ne abbiamo vissute già troppe con un altro Matteo…”.
Un messaggio chiaro arrivato nel momento in cui lo stesso Renzi, impegnato a costituire i nuovi gruppi parlamentari di Italia Viva, provava a tranquillizzare Conte con un rassicurante: “Nessun problema. Con la nostra uscita dal Pd non ci saranno ripercussioni nel governo”.
Il ricordo di tutti però è andato immediatamente a quel “Stai sereno…” che l’ex segretario del partito regalò al povero Enrico Letta poco prima di fotterlo e buttarlo fuori da Palazzo Chigi.
La verità è che di lui non si fida più nessuno. L’uomo gioca come ha sempre giocato. Da solo. Abituato a condurre la partita, farà di tutto per disorientare e confondere amici e nemici. Ma questo lo sanno anche questi ultimi che da tempo gli hanno preso le misure. E per lui sarà molto più dura che in passato.
Al punto che, alle prime mosse dello scissionista, gli ex amici ed i potenziali nuovi alleati reagiscono senza tanti complimenti. Emblematica al riguardo la scelta di Renzi di lasciare nel Pd due suoi fedelissimi, Luca Lotti, il suo braccio sinistro, l’uomo da sempre chiamato a gestire rapporti e affari, anche poco puliti e Andrea Marcucci, il senatore di Lucca, che per conto di Zingaretti gestisce i rapporti della segreteria con i gruppi parlamentari.
Renzi li vuole ancora nel Pd per controllare da dentro ciò che accade al Nazareno. Ma per loro la mission impossible è già conclusa. Ufficialmente nessuno lo dice ma i due pretoriani di Renzi sono già bruciati perché giocare su più tavoli come l’ex premier ha sempre fatto, non paga più. Soprattutto nel momento in cui la debolissima guida del partito democratico rischia davvero l’implosione.
Basta infatti vedere i numeri in Parlamento per capire che, a decidere la vita e la morte di Giuseppe Conte in questa seconda esperienza di governo, è proprio l’ex sindaco di Firenze che potrà staccare la spina quando e secondo le modalità che riterrà più opportune.
Con l’addio al Pd, Renzi chiude il cerchio di quel rimescolamento di carte aperto con la trovata del Conte bis. Una trovata, è bene ricordarlo, che lo ha visto artefice in Italia, ma burattino di quei salotti, Ue, alta finanza, società di rating e capitali straniere (Washington, Berlino e Parigi in testa) che hanno visto e percepiscono il “sovranismo” populista e la sua grande voglia di autonomia, come il nemico da battere. In Italia e in Europa.
Renzi se ne è dunque andato lasciando un Pd confuso, frastornato e sotto choc, con un futuro che non lascia presagire nulla di buono. Il clima di euforia che aveva invaso la sede del Nazareno subito dopo la nascita del Conte bis a maggioranza giallo rossa, è già svanito nel nulla. Alla felice incredulità di una settimana fa è subentrato uno scoramento profondo caratterizzato da laceranti preoccupazioni.
In Russia, nell’ottobre del 1917, a Lenin bastarono sette giorni “per sconvolgere il mondo” e regalare all’umanità una dittatura sanguinaria e totalitaria durata ben 74 anni, con una eredità di fame, miseria e milioni di morti. Al povero Zingaretti, sono bastate solo sette ore per capire che l’uscita dell’ex premier rappresentava un punto di non ritorno che ha gettato i vertici del partito, ovvero i piccoli ma arroganti Togliattini, tutto banche poltrone e iPhone, nel caos.
Con buona pace di Gramsci, la storia degli eredi della scissione di Livorno finisce qui. Definitivamente. Per gli ultimi rapaci inquilini della sinistra italiana, di lotta, poca, e di governo, molta, i quali ambiscono a stare nei salotti buoni dell’Italia viva ma furbona, il futuro da oggi è altrove. In casa d’altri.
Enzo Cirillo
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