Sarebbe troppo facile ( e qualcuno ci ha provato ) fare dell’ironia sulla richiesta di Totò Riina di un “fine vita dignitoso” in considerazione delle sue condizioni di salute. Il capo dei capi della mafia italiana, affetto da tumore ma curato più che adeguatamente in carcere, ieri tramite i suoi avvocati che ne avevano fatto richiesta alla Cassazione, ha avuto un poderoso assist dai giudici della Suprema Corte: anche questo micidiale assassino stragista al 41 bis per scontare svariati ergastoli (16) emessi dalla magistratura italiana, “ha diritto ad un fine vita dignitoso”. Il pronunciamento dei giudici pone due ordini di problemi: uno morale, l’altro tecnico.
Sugli aspetti morali della richiesta della Cassazione, ovvero sulla necessità di riconoscere anche ad un feroce assassino il diritto di morire nel letto di casa, ci sarebbe molto da obiettare. Intanto perché Riina sì e tanti altri ergastolani no. L’avanzare stesso dell’età stessa spinge in favore di un atteggiamento meno intransigente da parte della società civile. Ma qualcuno spieghi perché al Capo della Mafia, in contrasto con quanto previsto dall’art. 3 e dall’art. 27 della Costituzione debba essere riservato un trattamento di favore “in limine mortis”. Sarebbe sufficiente ricordare che un altro Capo indiscusso della Mafia, Bernardo Provenzano, ha finito i suoi giorni dietro le sbarre. Ed anche lui aveva chiesto clemenza allo Stato. La linea del discrimine, dal punto di vista morale e giuridico è proprio la legge che, piaccia o no, deve essere uguale per tutti.
Ci sono poi le questioni “tecniche”, non certo meno importanti di quelle etiche, richiamate dall’esercito di parenti di uomini dello Stato come magistrati, poliziotti e delle vittime di mafia, che dicono giustamente no alla scarcerazione di Totò ‘U curtu che, intercettato in cella, nel raccontare i particolari dell’omicidio del generale Dalla Chiesa si compiace di sottolineare che i primi colpi li misero a segno loro, ‘setto otto di quelli terribili’, e continuarono a sparargli pure da morto.
Una domanda si impone: Riina è ancora operativo? E’ ancora lui il Capo dei Capi? E’ ancora lui il grande burattinaio di Mandamenti, cosche, strutture d’appoggio economico e finanziario. E’ sempre lui che “con il solo sguardo”, come amano ricordare alcuni magistrati impegnati nella lotta alla mafia, riesce a dire cosa fare e cosa non fare nella turpe e criminale galassia della delinquenza organizzata della mafia? Chi conosce bene Riina e quel mondo non ha dubbi. Come il procuratore nazionale Antimafia Franco Roberti, per il quale il Superboss, il Capo dei Capi come ha titolato una miniserie televisiva di qualche anno fa, «deve rimanere al 41 bis, ha gravi problemi di salute ma resta il capo di Cosa nostra». «Attenzione a far tornare a casa i boss”, avverte il questore di Palermo, Renato Cortese: “potrebbero influire sulla situazione attuale. Al momento, la mafia non è morta ma è effettivamente in difficoltà. Se a tornare nell’organizzazione sono teste pensanti queste possono essere in grado di coagulare attorno a sé un certo consenso e di rinvigorire Cosa nostra».
Ora, dopo il rinvio della Cassazione, non rimane che attendere la valutazione che faranno i giudici. Con fiducia, s’intende, ben sapendo che da parte della stragrande maggioranza del Paese c’è una necessità inconfutabile di certezza della pena. “ma una morte dignitosa non vuol dire una morte da uomo libero, tornando ad occupare fisicamente quei luoghi che ancora sono intrisi del sangue di troppe persone innocenti e per bene. E la libertà a Totò Riina, o la sua destinazione ai domiciliari, sarebbe una ingiustizia grave dello Stato ai danni dei propri cittadini, un insulto alla memoria di chi non c’è più.
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