La lunga attesa è finita. Dopo 24 anni ad interrogarsi sul perché la classica “giornata storta” dovesse capitare proprio in un Mondiale, l’occasione più importante, i 61.049 spettatori dell’Eden Park di Auckland, più altri quattro milioni di neozelandesi, hanno potuto dare libero sfogo alla propria gioia. Gli All Blacks ce l’hanno fatta. Ora, come allora. Anche stavolta contro la Francia. Molti avevano pronosticato una passeggiata per i tuttineri. Ma molti non conoscono questo sport.
E la tensione che alberga in chi, da sempre, si ritiene il più forte e che accoglie ogni sconfitta come un lutto da elaborare per i mesi a seguire. Per non parlare dell’assenza forzata del miglior mediano d’apertura del globo, Dan Carter. E lo poteva pensare solo chi non conosce lo smisurato orgoglio francese, mostrato sin dall’esecuzione della versione più “cruenta” dell’haka “kapa o Pango” che prevede il gesto del taglio della gola, cui i transalpini rispondevano avanzando verso i rivali e formando un ideale “V” di victoire. La partita iniziava con una Nuova Zelanda arrembante e già in meta dopo 14’ con il pilone Woodcock, lanciato al volo da Kaino, su rimessa laterale di Mealamu. I padroni di casa sembrano aver sciolto la tensione degli inizi ma scontavano l’inedita imprecisione dalla piazzola del loro eroe sin lì, Weepu, che sbagliava ben tre calci in 26’. Ci si metteva anche l’infortunio del mediano d’apertura, Cruden, che usciva per lasciar spazio alla quarta scelta nel ruolo, Donald. La reazione francese non tardava e la partita diventava una lotta selvaggia. Il secondo tempo si apriva con i tre punti di Donald ma la gara offensiva degli All Blacks terminava lì. Poi, solo Francia e interminabile paura del pubblico di casa. I “galletti” andavano in meta con il capitano e migliore in campo, Dusatoir, già all’8’, Trinh-Duc non falliva la trasformazione. 8-7 e tutto in bilico. La Francia premeva con decisione e l’occasione di rovesciare le sorti del match arrivava al 23’ ma Trinh-Duc, stavolta, sbagliava. La tensione saliva ma quando la “maledizione della Coppa del Mondo” sembrava manifestarsi per l’ennesima volta, ecco ad ergersi a protagonista un gigantesco Richie McCaw. Il capitano di mille battaglie ( 103, in verità, di cui 66 da capitano), nonostante la vistosa menomazione al piede destro che l’ha accompagnato lungo tutto il torneo, si esibiva in una serie impressionante di placcaggi e diventava un muro invalicabile per gli indomiti rivali. Il fischio finale consegnava la Webb Ellis Cup ai suoi legittimi proprietari, alzata al cielo di un paese ebbro di gioia proprio da McCaw. Come aveva fatto David Kirk nel 1987, sempre nel fortino dell’Eden Park, inviolato dal 1994. E manda agli archivi un’edizione della Coppa del Mondo da ricordare per il grande equilibrio tra le migliori squadre. Tutte le semifinaliste avrebbero potuto vincere. Una menzione particolare la merita il Galles, squadra giovanissima: se non verrà smembrata, il futuro è suo. Ma anche gli Springboks, eliminati nei Quarti, avrebbero avuto le loro chances. Ma se su un futuro radioso dei “dragoni” è lecito nutrire dubbi, quel che è certo è che il presente appartiene alla Nuova Zelanda. Dopo anni di dominio nei Tour in Europa, nel Tri Nations e nelle classifiche mondiali, mai seguiti dal trionfo iridato, adesso possono ben dirlo: la Coppa che va ai migliori è tornata nelle mani dei migliori.
Daniele Puppo
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