Niente più elemosina a Salò, in provincia di Brescia. Lo dice, o meglio lo ribadisce, il sindaco Giampiero Cipani, che ha predisposto l’affissione di manifesti che invitano i cittadini a non favorire questa pratica.
Il testo del manifesto, dalla pagina Fb del Comune di Salò.
“Noi tutti vogliamo aiutare coloro che chiedono l’elemosina, ma lo dobbiamo fare nel modo corretto, non versando loro saltuariamente per strada qualche spicciolo. Favorire l’accattonaggio – si legge sui manifesti – non aiuta ma impedisce e ostacola la creazione di un servizio di accoglienza degno di un Paese civile”.
Chiedere l’elemosina, ricorda il primo cittadino, è d’altra parte già vietato, “dall’art.11 del regolamento comunale della Polizia Urbana” che sancisce il divieto di accattonaggio per le strade, “davanti ai supermercati, nei parcheggi e all’entrata dei luoghi sacri”.
“Il fenomeno – sottolinea Cipani – si è aggravato pesantemente negli ultimi anni a causa del problema legato all’immigrazione”. In effetti, non si può negare che l’emergenza migranti abbia reso ancora più imperativo cercare di trovare una soluzione strutturale alla questione, in termini di accoglienza ma anche di creazione di posti di lavoro e soprattutto di inserimento nel tessuto sociale locale.
Una recente inchiesta, condotta seguendo due immigrati ghanesi di un centro accoglienza a Milano, ha sottolineato la difficoltà per chi arriva nel nostro Paese, sia esso rifugiato politico o semplicemente in cerca di migliori condizioni di vita, di prepararsi adeguatamente all’inserimento nella società: “Mangiare, dormire. Mangiare, dormire: è così che passiamo normalmente le giornate“, affermava sulle pagine di ‘Grazia’, Kwaku, 22 anni, che prima di venire qui faceva il meccanico.
Cosa rende così difficile la gestione e l’accoglienza di questi giovani (e non solo di loro)? Prima di tutto i numeri. Tra il 2014 e il 2015 si è registrato un aumento del 32% nelle richieste di asilo alle Commissioni territoriali (l’unico modo per restare legalmente in Italia). Nel 2016, anno appena concluso, la percentuale è arrivata fino al 47% in più.
Nella pratica, tutto questo si traduce in lunghissimi tempi burocratici, durante i quali chi richiede asilo si ritrova in una specie di “limbo” dal quale può emergere in due modi: o iniziando una nuova vita nel nostro Paese oppure, se la sua richiesta viene respinta (cosa che avviene ormai nel 60% dei casi), ritornare nel luogo da cui è voluto scappare.
Come spesso accade, ad aggravare la situazione vi è la mancanza di controllo. “Purtroppo spesso i centri di accoglienza offrono solo un sistema di alloggio. Sulla Carta dovrebbero prevedere attività di formazione e integrazione, che di fatto non vengono realizzate. Le norme sono buone ma, come capita spesso in Italia, mancano i controlli“, ha spiegato sempre su ‘Grazia’, Marco Ehlardo, coordinatore per otto anni del sistema di accoglienza nella città di Napoli ed ora autore di un libro dal titolo: “Terzo settore in fondo”, in cui affronta la questione da un’ottica interna al problema.
Ad esempio, spiega Ehlardo, “Tantissimi ristoranti ed alberghi in crisi si sono riciclati come centri di accoglienza. Ce ne sono che accolgono centinaia di immigrati: con 500 persone è praticamente impossibile offrire un percorso di integrazione efficace. Risultato: chi ha chiesto asilo non fa niente tutto il giorno o va in giro a chiedere l’elemosina”.
Cosa sono gli Sprar, Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati. Sulla carta, sono strutture che vanno ad sostenere il lavoro svolto dai centri di accoglienza e, sempre in teoria, potrebbero aiutare a risolvere una questione così complessa. Questi centri, infatti, non forniscono quindi assistenza immediata ma piuttosto aiutano nel loro percorso di integrazione, sociale ed economica, coloro che già titolari di una forma di protezione internazionale (rifugiati, titolari di protezione sussidiaria o umanitaria).
Questo è possibile perché lo Sprar lavora di concerto con i comuni e quindi coinvolge nei suoi progetti gli enti locali, il territorio e in definitiva l’intera comunità. Fino ad oggi però, queste strutture accolgono solo il 20% degli immigrati, dal momento che è il comune stesso ha decidere di dar vita o meno al progetto, aderendo ai finanziamenti del FNPSA (Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell’asilo).
P.M.
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