Rita Hayworth, Anne Brancroft, Dean Martin erano italiani, si chiamavano Margherita Cansino, Annamaria Italiano e Dino Crocetti. Figli di immigrati dovettero cambiare nome, rinnegare le loro origini per affermarsi nel mondo dello spettacolo americano. Ma dopo che star internazionali, della portata di Coppola, Scorsese, Tarantino e De Palma, si sono imposti nello scenario della cinematografia mondiale qualcosa è cambiato. Avere origini italiane non è più penalizzante, anzi, può diventare ragione di vanto.
Lo stesso Scorsese ha affermato in un documentario dal titolo “Italwood”, che lui, Coppola, De Niro, Pacino e altri immigrati di seconda generazione sono stati educati alla cultura e ai valori italiani, e che non è mai stata loro intenzione nasconderlo, consapevoli che questo conferisce loro un valore aggiunto.
Non si può tuttavia ignorare che l’America abbia costituito per loro una grande, unica possibilità di affermarsi.
La storia del mitico Frank Capra è un po’ diversa. Partì da Palermo all’inizio del ‘900 ancora bambino, la vista dell’oceano e quei lunghi giorni trascorsi in mare gli fecero azzerare i ricordi del passato, Frank si sentì sempre americano con forti tinte patriottiche anche se negli anni trenta il regime fascista lo osannò come il più grande regista italiano nel mondo.
C’è da dire che la prima generazione di immigrati italiani, per lo più meridionali, dovette affrontare non pochi problemi d’integrazione, si comprende quindi la smania di americanizzarsi velocemente, di rimuovere un’identità che comunque, in termini di genialità, umanità, sensibilità è rimasta iscritta nel loro bagaglio genetico. Per la prima generazione di immigrati, il ricordo della loro terra, l’Italia meridionale, lacerata da una devastante crisi economica post-risorgimentale, ferita da ingiustizie, arretratezze, da poteri e mafie locali, doveva diventare qualcosa da relegare al passato.
C’è voluto del tempo. All’inizio, sulla scia della scarsa considerazione nei confronti dei nostri connazionali, gli italo-americani venivano ingaggiati per interpretare stereotipi come il gangster, il mafioso,il poliziotto ma poi, grazie a grandi autori e registi, si è ridato valore alle capacità espressive dei nostri conterranei così che il mondo ha potuto godere di star come Nicholas Toturro, Danny de Vito, Vin Diesel, Robert de Niro, Jack Nicolson, Liza Minelli, John Travolta, Susan Sarandon, Sylvester Stallone e di molti altri fino ad arrivare a Leonardo di Caprio.
La cultura italiana ha quindi un suo ruolo da protagonista a Hollywood, tra attori, attrici, sceneggiatori, registi, la sua presenza è talmente forte, che diventa impossibile non riconoscere che il cinema americano deve molto al genio dei nostri connazionali.
Ma quanto la nostra cultura ha influito sulle produzioni hollywoodiane? Difficile dirlo,chi conosce il mestiere del cinema sa benissimo che il genio non basta senza la possibilità di esprimerlo, senza una tecnica che si affina con la pratica, senza un pubblico che ti giudica e con il quale non puoi fare a ameno di interagire. L’industria cinematografica americana è stata sempre imparagonabile rispetto a quella italiana in termini di investimenti economici, scuole di preparazione per gli addetti ai lavori,estimatori,occasioni d’incontri determinanti.
Eppure negli anni ’60, Hollywood era in crisi a causa di un crollo di spettatori dovuti alla televisione ma soprattutto a causa del confronto imbarazzante con il cinema d’autore europeo, in particolare quello italiano che conobbe momenti di autentica gloria con Visconti, Antonioni,Pasolini, Bertolucci, De Sica, Olmi, il western all’italiana di Leone.
Alessandra Caneva
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