Le rivelazioni agli inquirenti di Filippo Calcagno e Gino Pollicardo, i due tecnici italiani rapiti in Libia e tornati liberi nei giorni scorsi, hanno aperto il vaso di Pandora delle ipotesi sul loro sequestro.
I diretti interessati hanno detto al PM romano Sergio Colaiocco di essersi liberati da soli, venerdì scorso, quando si sono resi conto che i loro carcerieri non sarebbero tornati a prenderli. Due giorni prima i rapitori erano avevano portato via dal covo i loro compagni di prigionia Salvatore Failla e Fausto Piano. “È tutto finito”, avrebbero detto. Cosa intendevano?
A quanto sembra, avevano trovato o stavano per trovare un accordo per il loro rilascio: un riscatto in denaro, uno scambio di prigionieri o qualsiasi altra contropartita. Ma qualcosa non è andato come previsto, e come si sa ne hanno fatto le spese i primi due ostaggi a uscire, rimasti uccisi insieme ai loro sequestratori in uno scontro con le milizie di Sabrata. O almeno questa è la versione fornita dalle autorità cittadine.
Gli esami sui corpi delle vittime, che oggi sono arrivati a Tripoli in attesa del volo speciale per Roma, serviranno quantomeno a confermare o smentire la dinamica della morte di Piano e Failla. Ricostruire il resto tocca ora agli inquirenti.
Il primo mistero in questa storia risale al momento del rapimento. I quattro tecnici italiani, dipendenti della ditta Bonatti di Parma, sono spariti il 19 luglio scorso mentre erano diretti agli impianti ENI di Mellita, pochi chilometri a est di Sabrata. Secondo il piano originale, li dovevano raggiungere via mare, proprio per evitare i rischi legati alle attività di vari gruppi di miliziani nella regione. Dopo essere atterrati alle 18 a Djerba, in Tunisia, avrebbero dovuto passare la notte sul posto e poi arrivare in auto al porto di Zarzis. Lì si sarebbero dovuti imbarcare su una chiatta che li avrebbe condotti direttamente al terminal ENI.
Invece, mentre erano fermi a Malta per uno scalo, l’operation manager Dennis Morson li informa di un cambio di programma: niente più pernottamento e niente più chiatta, ma viaggio diretto dall’aeroporto agli impianti, via terra, in una macchina con autista. Autista che durante il viaggio fa diverse telefonate, ma nessuno dei quattro italiani parla arabo tanto bene da capire cosa dica.
Il mezzo passa la frontiera verso le otto di sera, e una volta in territorio libico passa indisturbato due checkpoint. Verso le 21.40, però, due macchine lo affiancano e lo fermano. L’autista viene fatto scendere e caricato su una delle due auto dei rapitori, uno del commando passa alla guida e i tre veicoli ripartono verso il primo covo.
Mentre i colleghi danno l’allarme, la prima ipotesi fatta è che sia stato l’autista a tradirli. Ma Calcagno e Pollicardo raccontano di averlo visto legato e picchiato. Può essere stata solo una messa in scena architettata per sviare i sospetti? Marcello Matraxia, il dirigente Bonatti che ha riconosciuto i corpi di Piano e Failla, sostiene che si siano stati “traditi da qualcuno di cui si fidavano”. Ma non è l’unica domanda senza risposta: chi ha deciso di cambiare programma in corsa, e cosa lo ha spinto a farlo?
Il primo trasferimento dei quattro ostaggi avviene a novembre. Fino a quel momento i carcerieri li trattano con un minimo di umanità: ad esempio assicurano a Failla – che riusciva a parlare francese con uno dei rapitori – di non volerli vendere a miliziani dell’ISIS, che probabilmente li ucciderebbero. E scattano loro diverse foto che fanno sperare in una trattativa per il rilascio. Poi però iniziano episodi di violenza gratuita. Gli italiani ricevono calci, pugni e anche colpi con il calcio dei fucili.
Con ogni probabilità, a mettere in moto le operazioni che hanno condotto alla morte di Piano e Failla e alla liberazione di Pollicardo e Calcagno è il raid USA del 19 febbraio che distrugge un campo d’addestramento per jihadisti alla periferia di Sabrata. Da quella data le milizie cittadine scatenano la caccia all’uomo.
Nel covo in cui li tengono prigionieri, gli italiani iniziano a sentire voci sconosciute, tra cui donne e bambini: forse la casa serve da rifugio anche a un gruppo di sfollati. Ed è da quel momento che iniziano a scarseggiare il cibo e l’acqua.
All’alba di martedì 1° marzo i rapitori portano agli ostaggi un cambio di abbigliamento – le tute sportive che avevano addosso quando sono tornati liberi – e prendono con sé Piano e Failla, li bendano e li caricano in una macchina già mezza carica di scatoloni. Sappiamo tutto questo perché il primo tentativo di trasferirli da qualche altra parte non va in porto: i due prigionieri vengono riportati nello stesso nascondiglio, dove hanno modo di raccontare tutto ai compagni di prigionia. La mattina dopo la scena si ripete, e l’esito, come sappiamo, è tragico.
Pollicardo e Calcagno raccontano di essere rimasti abbandonati a se stessi per circa due giorni. Il secondo, in particolare, ha detto di essere riuscito a indebolire la porta del covo a poco a poco, lavorando con un chiodo intorno alla serratura.
Cosa ha spinto i sequestratori a scegliere proprio Failla e Piano per la sfortunata sortita? “Ci siamo chiesti come mai e la spiegazione che ci siamo dati era che forse non avevano posto”, ha detto Calcagno: “Mi è sembrata una scelta casuale”. Pollicardo ha un’altra idea: “Erano più magri di noi ed entravano nel pickup”.
Non è ancora chiaro nemmeno il motivo per cui i superstiti siano potuti uscire dal nascondiglio senza incontrare alcuna resistenza: è possibile che i loro rapitori non abbiano lasciato nessuno di guardia? E nel caso più probabile in cui qualcuno ci fosse, avrebbe deciso di allontanarsi o sarebbe stato costretto? E la porta che dava sull’esterno “era aperta”, come ha detto Calcagno, “e fuori non c’era più nessuno”.
Le ricostruzioni che si possono fare ora hanno tutte le lacune inevitabili. Ma il sospetto è che ne abbiano anche altre evitabili. La vedova di Failla, Rosalba Scorpo, ha chiesto di fare luce sui fatti. “La mia assistita – ha dichiarato il suo legale – chiede al governo di avere delle risposte sul rientro della salma, ma soprattutto chiede che l’autopsia non venga eseguita in Libia”.
Anche Pollicardo ha criticato le operazioni della liberazione sua e di Calcagno: “Venerdì sera, quando aspettavamo di essere trasferiti da Melita a Mitiga – l’unico aeroporto ora in funzione a Tripoli, ndR –, non sono stati in grado neppure di coordinare l’elicottero, nessuno sapeva dove fosse finito: due persone che hanno subito quello che abbiamo subito noi non possono attendere quattro ore”. “Altro che liberati, siamo stati abbandonati”.
Non dico che non ci fossero i contatti, ma mi sembra impossibile che in otto mesi non abbiano avuto il tempo di prenderli davvero.
Al presidente del Copasir, Giacomo Stucchi, “non risulta” che si sia pagato un riscatto. Per il ruolo che occupa non potrebbe fare altrimenti. Ma riconosce: “Ho sentito del pagamento di un riscatto, e ho sentito del pagamento di un riscatto in mani sbagliate”.
Dico solo che delle modalità di risoluzione di un sequestro come questo il Comitato che presiedo viene informato e può acquisire tutta la documentazione in merito. Per questo posso dire che non mi risulta che ci sia stata una scelta di questo tipo. Nessuno ha mai riferito al Copasir tale fatto.
Sulle circostanze della fuga o della liberazione di Calcagno e Pollicardo, Stucchi si è detto convinto che la “notizia dell’uccisione dei probabili capi” abbia convinto i banditi rimasti di guardia a scappare, “abbandonando” i due ostaggi rimasti in vita.
Il presidente del Copasir ha difeso l’operato dell’intelligence: “Posso dire che ha seguito questa vicenda con lo stesso impegno profuso in altri casi delicati avvenuti in aree molto problematiche, e quindi simili a quest’ultimo”.
Dire che l’intelligence non sapesse nulla di quanto stava accadendo e che non stesse operando per riportarli a casa vivi è sbagliato.
Le ultime notizie dalla Libia sono destinate a tenere acceso il fuoco delle polemiche. Ieri il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni aveva detto che le salme di Salvatore Failla e Fausto Piano sarebbero rientrate in Italia “se possibile” entro la tarda serata di oggi. Ma i corpi sono arrivati a Tripoli – anzi, all’aeroporto di Mitiga – solo nelle prime ore del pomeriggio. “Questo ritardo sta assumendo aspetti veramente inquietanti”, ha commentato Francesco Caroleo Grimaldi, il legale della famiglia Failla.
Il sindaco di Sabrata, Hussein al-Zawadi, stamattina ha avvertito che le formalità burocratiche erano appena iniziate. “Come di norma in questi casi – ha spiegato – i corpi dovrebbero essere stati sottoposti a un’autopsia e dovrebbe esserci una perizia che li accompagna, e che dev’essere sottoposta al Procuratore generale per allegarla ai documenti dell’inchiesta”. Ma se sulle salme fosse stata eseguita un’autopsia vera e propria o un “esame autoptico” generico.
Filippo M. Ragusa
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