Ha riaperto i battenti il campionato di calcio di serie A dopo l’inedita sosta post-befana ma il film proposto pare un neanche troppo riuscito remake di quanto visto due settimane fa. Napoli e Juve, sempre separate da un solo punto alla luce della vittoria di misura appena maturata dai bianconeri contro il Genoa, a fare gara di testa con un vantaggio sul resto delle pretendenti ad “un posto al sole” a debita distanza. Anzi, solo la Lazio, che replica contro il Chievo la “manita” di Ferrara, sembra in grado di intravvedere quantomeno la scia delle due battistrada. Inter e Roma, attese dal posticipo di lusso della domenica sera, si annullano a vicenda non andando oltre un pareggio che scontenta entrambe e che, di fatto, allontana di altri due punti le due squadre dal terzetto di testa, certificando uno stato di crisi che si protrae da dicembre.
Nonostante tutto riprenda “senza che nulla cambi”, in realtà gli spunti che questa prima metà (più due giornate) di stagione ha proposto sono molteplici e un domani potremo ricordare questo 2017/18 come la stagione dell’esordio della (e del ) VAR, delle lotte infinite in seno alle varie componenti chiamate ad esprimere i nuovi quadri dirigenziali del nostro calcio, ma, soprattutto e purtroppo, dell’eliminazione della Nazionale dalla fase finale dei Mondiali di Russia, peraltro motivo scatenante della dipartita di Tavecchio e Ventura e detonatore del caos in cui sta annaspando la Federazione. Vedremo la rassegna iridata in Tv, per la prima volta dal 1958. Ma, altra novità, non sui canali di mamma Rai. E anche su questo, polemiche e “mal di pancia” a non finire. Peccato davvero. Perché, in fondo, che il calcio nostrano stesse attraversando un periodo piuttosto prolungato di difficoltà era un dato noto da tempo ( la nostra serie A non può competere per fatturato, incassi da botteghino, da diritti televisivi e via discorrendo non più solo con la Premier inglese o con la Liga spagnola, ma anche la Bundesliga ci è davanti e i nuovi ricchi del pallone strizzano l’occhio anche a realtà come il Psg in Ligue1 piuttosto che al campionato cinese, oltre al protrarsi del digiuno di successi dei nostri club nelle competizioni europee, con le vittorie in Champions dell’Inter nel 2010 e del Parma nel 1999 quando l’Europa League ancora si chiamava Coppa Uefa che cominciano a sembrare ricordi sbiaditi) ma, almeno a livello di Nazionale, si era visto anche di peggio. La rappresentativa allestita da Conte per l’Europeo in Francia del 2016 era, per esempio, meno qualitativa di quella avuta a disposizione di Ventura. Basti pensare ai rispettivi parchi attaccanti: Pellè, Eder e Zaza da una parte e Belotti e Immobile dall’altra. Ciò non impedì al tecnico pugliese di vincere il girone battendo il quotatissimo Belgio, per poi estromettere negli Ottavi nientedimeno che la Spagna, salvo poi arrendersi solo ai rigori ad oltranza contro i campioni del Mondo della Germania nei Quarti. Inevitabile, quindi, l’allontanamento di Ventura (ma, attenzione, non le sue dimissioni…). Chi sarà, poi, il futuro Ct della ricostruzione ancora non è dato sapere. E, a livello di ranking Uefa, quindi di club, avevamo faticosamente riguadagnato il diritto ad avere quattro rappresentanti direttamente iscritte al tabellone principale della Champions League, oltre ad aver gonfiato il petto per le conquiste in terra d’Albione proprio di Conte e, prima di lui, di Ranieri, autore del “miracolo Leicester”, una delle sorprese più clamorose non della storia del calcio, ma dello sport tutto.
Archiviata la dolorosa ma doverosa parentesi azzurra e tornando ai fatti di casa nostra, non più tardi di un mese e mezzo fa ci si rincuorava plaudendo ad un campionato incerto come non si vedeva dall’epoca delle “sette sorelle” (e si parla di fine anni ’90), per quanto clamorosamente spaccato in due-tre tronconi, con le prime cinque a contendersi le quattro piazze utili alla qualificazione (e ai soldi) della Champions e a far man bassa di punti contro il resto del plotone, a sua volta suddiviso tra squadre in lizza per la meno nobile (e munifica) Europa League e squadre impegnate nella lotta salvezza. Con il Benevento a fare un campionate tristemente a parte. A proposito, e al netto delle due vittorie consecutive dei campani e della prodezza del loro portiere goleador, Brignoli (altro episodio da tramandare ai posteri), aveva così torto il tanto vituperato Lotito nel volere una serie A più light? Poi, in un mese, dicembre, di cui le due giornate disputate a gennaio non hanno fatto che confermare il trend, anche il gruppo di testa si è sgranato. Come in una dura corsa a tappe ciclistica, Napoli e Juve hanno operato quello che ha tutta l’aria di essere l’allungo decisivo. La prima ad accusare un calo è stata la Lazio, vuoi per le scorie del derby perso, vuoi per qualche episodio arbitrale palesemente avverso. Evidente ma non tale da concordare con le affermazioni anti-VAR di mister Inzaghi. Sì, qualche esultanza rimarrà strozzata in gola, qualche abbraccio verrà dato a vuoto, ma è un prezzo accettabile da pagare a decisioni più corrette. Come le statistiche hanno confermato. Che poi sia stata proprio la squadra biancoceleste la più penalizzata tra le pretendenti alla vetta questo è vero, ma è un altro discorso. La Lazio, dunque. Prontamente ripresasi dal periodo-no, è ora la realtà più bella di questa prima metà di stagione, l’unica squadra, con la Juve, ancora in corsa su tutti e tre i fronti (Atalanta e Milan sono troppo attardate in campionato per poter ambire ai quattro posti che contano davvero). E con un trofeo, la Supercoppa italiana conquistata al termine di un epico confronto con i bianconeri, già in bacheca. Poteva essere il sogno di una notte di mezza estate e, invece, si è trasformato in una splendida e solidissima realtà. Partita tra non poche perplessità dopo le partenze eccellenti di Keita e Biglia e con l’infortunio di Felipe Anderson ad addensare le nubi, ha saputo trovare da subito nuovi equilibri, oltre a riscoprire in Luis Alberto, meteora (non per colpa sua, era impiegato fuori ruolo) solo un anno fa, il miglior trequartista della serie A . Ora gioca, al pari del Napoli ma, per certi versi, anche più dei partenopei rispetto ai quali può vantare una rosa più ampia, una miglior capacità di contenimento (e, perché no, di soffrire) e un punto di riferimento là davanti dalla media realizzativa devastante come Ciro Immobile, alla miglior stagione della carriera, il miglior calcio dello Stivale. Merito, soprattutto, proprio del suo giovane tecnico. E mai un mancato arrivo, come quello del “loco” Bielsa, fu più fausto.
Ripresa quota la Lazio, sono poi franate le ambizioni di Roma e Inter. Problemi simili quanto al gioco e alla fragilità psicologica dei rispettivi gruppi, matrici diverse. Partita a fari spenti, la squadra giallorossa, reduce dalla dolorosa cessione di Salah, ora protagonista assoluto in Premier, non rimpiazzato da un sostituto di livello dopo l’infruttuosa rincorsa a Mahrez, affidatasi al sin qui deludente (ma il ragazzo ha tutte le attenuanti del caso) Schick come fiore all’occhiello e guidata dall’ex Di Francesco, alla sua prima esperienza su una panchina di rango, aveva rapidamente assorbito gli scivoloni interni con Inter e Napoli sfornando prestazioni e risultati con la continuità di una grande, dimostrando come il giovane tecnico fosse già in grado di lasciare un’impronta e di rasserenare un ambiente dilaniato dall’esperienza dello Spalletti-bis. Con la qualificazione agli Ottavi di Champions in un girone dove Chelsea e Atletico Madrid apparivano decisamente più accreditate come apice. Anche se, a ben guardare, le uniche due prestazioni veramente scintillanti erano state quelle fornite con gli inglesi (sconfitta senza attenuanti a Madrid, pari soffertissimo con gli stessi colchoneros all’Olimpico e due vittorie sudate contro il modesto Qarabag). Poi, dopo l’espulsione di De Rossi con conseguente rigore del pareggio genoano a Marassi, qualcosa si è rotto. La squadra ha perso di colpo fiducia, serenità e, soprattutto, è entrata in una crisi atletica ancora in atto. E il secondo tempo tremebondo di San Siro ne è stata la riprova. Un episodio, quello di Genova, come tanti ne possono accadere nell’arco di una stagione e, in quanto tale, superabilissimo per una squadra solida e da vertice. Un probabile turning point della stagione per un gruppo, quello romanista, ancora evidentemente lontano dalla dovuta maturità. Ora, da ultimo, stanno venendo impietosamente a galla i problemi di un bilancio che fa acqua e che esigerà immediati tributi pesantissimi (Emerson è già con la valigia pronta per Londra dove potrebbe seguirlo a breve Dzeko, su Pellegrini è in pressing la Juve, mentre Nainggolan resisterà alle sirene cinesi adesso ma a giugno potrebbe partire). Decisivi, per le casse societarie, più che mai un piazzamento Champions per il prossimo anno e il nuovo stadio che ha incassato un tormentato sì dalla conferenza di servizi ma che vede un quantitativo chilometrico di prescrizioni da osservare.
Quanto all’Inter, la rosa era, oggettivamente, ridotta all’osso già in partenza ed è stato sufficiente il simultaneo infortunio a Miranda e a D’Ambrosio a mandare in tilt l’intero reparto difensivo. L’attacco poggio solo sui guizzi di Icardi, che non è poco, ma il capitano argentino non può sempre fare il boia e l’impiccato. Ma quello degli uomini è il problema minore. Il gioco, solo a tratti apprezzabile, latita. E laddove non soccorrono le prodezze del bomber davanti e di Handanovic dietro, la polvere riemerge impietosa da sotto il tappeto nerazzurro. Sinceramente, da un allenatore come Spalletti sarebbe stato lecito attendersi di più. Affatto meglio sull’altra sponda del Naviglio dove, oltre ai noti problemi societari (si attende la stangata dell’Uefa), anche la squadra ha, a prescindere da ciò che potrà ancora accadere di qui a fine anno, clamorosamente disatteso le aspettative, alimentate da una campagna acquisti estiva faraonica. Quantomeno per i nostri standard. Tardivo l’esonero di Montella e non che Gattuso, reduce da esperienze ridotte e piuttosto negative, sia il toccasana ideale, ma la squadra, anche aiutata da un pizzico di fortuna (vedi Firenze), sembra aver ripreso una linea di galleggiamento almeno accettabile.
Per lo scudetto sarà, come si diceva, lotta a due. Il Napoli gioca a memoria ma il calcio insegna che non sempre chi gioca meglio è anche il più forte. E la Juve, per esperienza, abitudine a gestire le tensioni di un arrivo in volata, vastità di organico, è più forte dell’attuale capolista. Ma è anche vero che dovrà correre su tre fronti, ha comunque la Champions come obiettivo primario, non ha più record da battere (il primato dei sei scudetti consecutivi è già suo) e, quindi, almeno apparentemente, potrebbe avere meno fame. Nel Golfo si respira, invece, l’aria dell’anno giusto. E potrebbe veramente esserlo, a patto di non bruciare troppe energie fisiche e nervose nei giovedì di Europa League (del resto, si è sempre detto che anche la Champions sarebbe stata secondaria rispetto al campionato, figurarsi la seconda competizione europea), data l’esiguità della rosa a disposizione di Sarri, il quale sarà anche refrattario di suo al turnover esasperato ma certo non è che abbia tutta questa scelta… e a patto che l'”anno giusto” non si trasformi in un ben più angoscioso “anno da ora o mai più” che caricherebbe di eccessive tensioni un ambiente già, di per sé, effervescente. Infine, condizione indispensabile sarà l’assenza anche solo di un raffreddore a carico dei tre tenori lì davanti. Una macchia evidente nella gestione De Laurentiis che, avesse investito di più e meglio i tesoretti di Cavani e Higuaìn , avrebbe potuto allestire un vero progetto tecnico a lungo termine. L’impressione è che l’ago della bilancia potrebbe essere il cammino più o meno lungo della Juve in Champions. C’è da giurarci che a Napoli più di qualcuno, per una volta, si rivolgerà a San Gennaro perché a Torino arrivi la coppa dalle grandi orecchie.
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