Al termine di una settimana maledetta per il mondo dello sport che aveva già dovuto registrare le tragiche scomparse di Tito Vilanova e di Sandro Lopopolo, ci ha lasciato anche Vujadin Boskov, una delle icone delle panchine degli anni ’80 e ’90.
Tra un mese avrebbe compiuto 83 primavere. Era nato il 16 maggio 1931 a Begec, in Serbia, e, prima di diventare uno degli allenatori più noti d’Europa, era stato tra i centrocampisti più forti dell’allora Jugoslavia. Un decennio di militanza nel suo amato Vojvodina di Novi Sad (sua vera patria), un fugace passaggio in Italia sotto la Lanterna, sponda Sampdoria (evidentemente la sua squadra del destino), la chiusura della carriera in Svizzera, allo Young Boys. Ben 57 le sue presenze con la maglia dei “plavi” (dal colore della maglia blu della nazionale slava) con all’attivo ben due partecipazioni alla fase finale dei Mondiali e una all’Olimpiade, conclusa con un brillante argento ad Helsinki ’52, dietro la sola immensa “Aranycsapat” ungherese.
Poi, una ancor più fulgida carriera da allenatore giramondo, con panchine collezionate un po’ ovunque tra Jugoslavia, Svizzera, Olanda e, soprattutto, Spagna e Italia. Nella penisola iberica il suo passaggio più significativo fu alla guida del Real Madrid con cui colse un fantastico “doblete” (Liga-Copa del Rey) nel 1979/80 e un’altra coppa nazionale nel 1981/82. Nel mezzo, la pagina più luminosa del suo trascorso alla “casa blanca” con la finale di Coppa dei Campioni persa per 1-0 contro il grande Liverpool di Paisley.
Portato in Italia, all’Ascoli, nel 1985 dalla lungimiranza del manager Italo Allodi, condusse subito i marchigiani alla promozione in A, poi la fantastica esperienza sulla panchina di quella Sampdoria dove aveva già collezionato una manciata di presenze nel 1961/62 come giocatore. Con lui come maestro e papà adottivo di una nidiata di giovani talenti tra i più fulgidi che il calcio italiano ricordi, la squadra blucerchiata fu protagonista di un’ascesa progressiva ma irresistibile, da squadra “simpatia”, imperniata sul blocco dei migliori calciatori italiani dell’epoca (Vialli, Mancini, Vierchowod, Pagliuca, Pari, Mannini, Lombardo), portati a Genova grazie alle felici intuizioni del direttore sportivo Paolo Borea e agli investimenti del grande Paolo Mantovani, sino alla vetta del calcio italiano, sfiorando anche il tetto d’Europa. Due Coppe Italia consecutive (1987/88 e 1988/89) e una Coppa delle Coppe (nell’indimenticabile notte di Goteborg contro l’Anderlecht nel 1989/90, dopo la scottatura della finale persa con il Barcellona di Cruijff l’anno prima) a fare da ricco antipasto per il piatto più prelibato, lo scudetto del 1990/91. Una vittoria storica per diversi motivi. Fu il primo e a tutt’oggi unico tricolore conquistato dalla società blucerchiata. Fu l’ultimo scudetto vinto da una cosiddetta “provinciale”, capace di spezzare l’egemonia dei soliti noti. Tatticamente, va ricordata come l’ultima affermazione di una squadra ancorata al vecchio sistema che prevedeva rigide marcature a uomo. Di lì a poco l’onda lunga di Sacchi avrebbe convertito tutti i mister nostrani alla zona. L’anno successivo, fu Supercoppa italiana e una fantastica avventura in Coppa dei Campioni culminata con la finale di Wembley. Ancora Barcellona. Ancora Cruijff. E ancora sconfitta. Ancor più amara perche’ la sensazione di potercela fare era forte. Ma un missile terra-aria di Koeman nei supplementari spazzò via le speranze dei genovesi e, al contempo, chiuse un’epoca. Vialli sarebbe andato alla Juve, di lì a poco anche Vierchowod e poi tutti gli altri campioni di quella squadra meravigliosa avrebbero preso la via di altri lidi.
La Samp non sarebbe più tornata a quei livelli.
Per Boskov un crepuscolo su panchine comunque prestigiose come quelle di Roma ( giusto il tempo di far esordire in serie A un 16enne di belle speranze, tale Francesco Totti…) e Napoli, del Servette in Svizzera per poi chiudere, dopo un brevissimo ritorno alla Samp, al Perugia e, infine, in nazionale.
Ma di Boskov si ricorderanno più ancora delle qualità professionali (non era certo un innovatore, ne’ un cultore di un calcio particolarmente organizzato e il gioco era spesso delegato alle straordinarie individualità di cui disponeva), le incredibili doti umane che lo resero una delle figure più amate dagli sportivi italiani. In particolare, ricorderemo sempre il suo coraggio nel valorizzare i giovani (Vialli e Mancini che prima del suo avvento avevano ottenuto solo una Coppa Italia, ma anche Lombardo, Pagliuca,Totti lanciato in prima squadra) e, soprattutto, le sue battute. Autentici aforismi. Come dimenticare frasi quali: “Rigore è quando arbitro fischia“, “Squadra senza pubblico è come donna senza seni“, “Io penso che tua testa buona solo per portare cappello (rivolto a un giornalista)”, “Gullit è come cervo che esce di foresta“, “Lombardo è come pendolino che esce di galleria“, “Presidente, grande signore, mi ha detto: se squadra perde punti, lei perde punti, ma se società perde soldi, io perdo soldi“, “Dopo pioggia viene sole“, “Un grande giocatore vede autostrade dove altri solo sentieri“, “Se slego mio cane lui gioca meglio di Perdomo (uruguaiano in forza al Genoa)”, poi rettificato in un “Io non dire che Perdomo gioca come mio cane. Io dire che lui potere giocare a a calcio solo in parco di mia villa con mio cane” o “Nel calcio c’è una legge contro gli allenatori: giocatori vincono, allenatori perdono“. Sempre in bilico tra il lapalissiano e le perle di saggezza di un autentico padre di famiglia. Perche’ tale lui voleva essere. Rassicurante. Per i suoi giocatori. Per la Samp, sua “creatura”. E un po’ per tutti noi che seguivamo, da ragazzini, quel calcio ancora “pane e salame”, in quegli anni ’80.
Daniele Puppo
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