La Russia bombarderà le postazioni dell’ISIS in Siria anche se gli USA e i loro alleati dovessero decidere di non unire i propri sforzi a quelli di Mosca.
Il presidente Vladimir Putin avrebbe proposto al suo omologo americano Barack Obama di fare fronte comune contro i jihadisti, e in cambio sarebbe disposto ad assecondare una graduale uscita di scena del presidente siriano Bashar al-Assad, suo amico e alleato di ferro.
Lo afferma l’agenzia Bloomberg, citando fonti del Cremlino e del ministero della Difesa russo. Secondo l’agenzia l’amministrazione Obama non avrebbe intenzione di accettare la proposta.
Putin, però, ha ancora carte da giocare: lunedì sarà a New York per parlare all’Assemblea generale ONU, e c’è la possibilità che a margine del suo intervento possa spuntare un colloquio con Obama.
La Russia in Siria sta preparando il terreno per un intervento militare di più ampia portata: nelle ultime settimane si sono intensificate le forniture di materiale bellico al regime di Damasco e si sono moltiplicate le truppe schierate sul territorio dello Stato amico, che inizialmente si era cercato di far passare solo per consulenti tecnici.
La Russia dovrebbe aver partecipato direttamente alla costruzione di nuove linee difensive intorno a Latakia, il primo porto del Paese, e a Tartus gestisce una base militare dov’è di stanza la sua flotta mediterranea.
Elena Suporina, un’analista esperta di Medio Oriente presso l’Istituto di studi strategici del Cremlino, spiega: “La Russia spera che prevalga il buon senso e che Obama raccolga la mano tesa di Putin”. Ma il presidente russo “agirà in ogni caso, se questo non accade”.
Oggi a favore del piano di unire le coalizioni si è espresso Abu Mazen. “Noi siamo contro il terrorismo e l’estremismo”, ha spiegato il presidente palestinese all’agenzia di stampa russa Interfax. “Siamo sempre stati a favore della pace e della soluzione politica in Siria”.
La sua presa di posizione riecheggia un’inversione di tendenza generale nell’approccio dei governi occidentali alla questione. Prima del 7 settembre, gli USA e gli altri Stati NATO – Turchia, Francia, Germania e via dicendo – ripetevano in ogni occasione possibile che la caduta di Assad era una condizione imprescindibile per la soluzione della guerra civile che dilania il paese da quattro anni e mezzo.
L’entrata a gamba tesa di Putin ha fatto cambiare il vento della diplomazia. Schierando le proprie truppe in Siria, la Russia si è assicurata di poter partecipare ai negoziati. Questo ha reso impraticabile l’ipotesi cara agli USA di un accordo che includesse tutte le opposizioni al regime e sfociasse in un governo di transizione.
Ora che il suo più potente sponsor internazionale è entrato a pieno titolo nella soluzione del conflitto, Bashar al-Assad può far valere le carte che ha ancora in mano. Prima fra tutte, in tempo di guerra, la capacità d’intervento sul territorio, se è vero che le forze a lui fedeli, per quante perdite possano aver subito dal 2011 a oggi, sono ancora in grado di non disintegrarsi nonostante l’impatto contemporaneo dei ribelli filo-occidentali, di varie milizie islamiste, dei curdi e dell’ISIS.
In tempo di pace, invece, Assad potrebbe giocare la carta della sua origine nella minoranza alawita per presentarsi come paladino dei gruppi minoritari contro la maggioranza sunnita. Il suo regime non si è mai distinto per il rispetto dei diritti delle varie componenti del popolo siriano, anzi ha trasformato gli alawiti – circa un quinto della popolazione totale – in un’élite ricca, potente e impermeabile. Ma i siriani hanno ben presenti le atrocità commesse dall’ISIS contro tutte le minoranze: quelle religiose, come cristiani e musulmani sciiti, ma anche quelle che pure professano l’Islam sunnita che i jihadisti sostengono di rappresentare, come i curdi.
Assad non è improvvisamente diventato il beniamino della comunità internazionale. “Sarebbe impossibile per i siriani accettare un dittatore che ha mandato a morte centinaia di migliaia di persone”, afferma il presidente turco, Recep Tayyip Erdoğan. Ma ad Ankara si comincia a pensare che il presidente “potrebbe far parte del processo di transizione”. Una correzione di rotta espressa anche dalla cancelliera federale tedesca Angela Merkel, che si è premurata di includere Assad fra i “diversi attori” con cui si dovrà parlare per fermare le ostilità, e dal ministro degli Esteri francese Laurent Fabius, che ha proposto “una transizione politica, che associ elementi del regime e dell’opposizione moderata”.
Filippo M. Ragusa
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