Chissà se il cantautore britannico Sting, al secolo Gordon Matthew Thomas Sumner, potrà davvero aiutare il settore dell’ospitalità italiana, come si è ripromesso di fare insieme alla moglie produttrice Trudie Styler con la quale ha creato la Every Breath Fundation. Da due decadi la coppia e i loro figli passano molti mesi all’anno nella propria tenuta Il Palagio in Toscana, a Figline Valdarno, dove coltivano vino e olive e realizzano prodotti biologici. Il loro scopo, si legge in un messaggio congiunto pubblicato sui loro profili instagram è di sostenere “dai bar ai ristoranti ai locali in genere, che hanno faticato a tenere aperto durante la pandemia” e per questo hanno iniziato una raccolta fondi. La stessa impresa Sting e la moglie l’avevano messa in atto, ad aprile per aiutare i ristoratori americani arrivando a raccogliere più di 1 milione e mezzo di dollari grazie alla messa all’asta di un fine settimana nella loro tenuta italiana.
L’impresa è generosa, ma la drammatica situazione di bar e ristoranti nel nostro Paese non è affatto di semplice risoluzione. È indubbio infatti che a pagare le maggiori conseguenze di questo anno di pandemia siano stati, dopo il settore della cultura e degli eventi dal vivo, proprio quelli del turismo e della ristorazione.
In particolare il rapporto annuale sulla ristorazione in Italia per il 2020 appare come “un bollettino di guerra”: un anno di pandemia ha ridotto in macerie uno dei settori maggiormente dinamici e attivi dell’economia italiana, quello cioè dei pubblici esercizi.
La crisi, si deduce dai dati del rapporto, non ha travolto solo l’offerta, ma ha influenzato profondamente anche la domanda: i consumi degli italiani si sono contratti e la spesa alimentare domestica non è riuscita a compensare nemmeno il 20% di quanto perso con la chiusura di bar e ristoranti.
È vero infatti che molti Italiani hanno aumentato i loro consumi in casa, aumentando a 6 miliardi di euro in un anno le spese per l’alimentazione. Ma non è stato abbastanza per compensare quanto è andato perduto nei pubblici esercizi, dove i consumi sono crollati di 31 miliardi di euro. Il dato racconta anche di come gli italiani abbiano scelto di spendere meno per prodotti agroalimentari di qualità superiore, che comunemente sono consumati in maggior misura all’interno dei ristoranti.
Facendo un paragone con le statistiche degli anni passati dobbiamo tornare addirittura indietro di 26 anni, al 1994, per ritrovare le stesse cifre di spesa pro-capite.
Ovviamente è stato il blocco dell’attività serale a mutare maggiormente le nostre abitudini, poiché se a febbraio di quest’anno colazioni, pranzi e pause di metà mattina hanno costituito l’87% delle occasioni di consumo fuori casa, le cene, causa restrizioni e coprifuoco sono totalmente scomparse dalle statistiche.
Dalle indagini di Fipe-Confcommercio il settore, per voce dell’85% dei titolari di bar e ristoranti, si è detto sicuro di riprendersi in breve, una volta giunti alla fine dell’emergenza e rimosse tutte le limitazioni ancora in atto, riconquistando i fatturati degli anni precedenti. Il 72% dei rappresentanti dell’industria, della distribuzione e della ristorazione intervistati lo ritiene verosimile entro il biennio 2022/23 ma c’è un 27% di pessimisti che pensa sia impossibile prima del 2024
Tuttavia la speranza dell’intero comparto è che nei prossimi 3-5 anni possa esserci un effetto “rimbalzo”, dopo i lunghi mesi di privazione sofferti, che porti le persone ad incrementare i propri consumi fuori casa, così da superare i livelli del 2019.
Ma è un’opportunità che va saputa cogliere per esempio attraverso il consolidamento dell’offerta dei servizi digitali e della consegna a domicilio, magari attraverso menù appositamente studiati e puntando su una maggiore riconoscibilità identitaria del singolo bar o del ristorante e ovviamente su una maggiore qualità dei prodotti offerti.
In Italia, è bene ricordarlo, che già prima della pandemia il settore lamentava una eccessiva presenza di offerta: circa 300mila esercizi a parità di consumi con Germania e Francia che ne contano molto meno; con l’inevitabile conseguenza che ogni anno molte attività erano comunque costrette a chiudere. Secondo i dati del 2019 erano il 25% le aziende che cessavano di esistere dopo un solo anno di attività fino a raggiungere il 57% nel quinquennio successivo all’apertura.
Ma non è finita qui: una volta riaperti battenti e rientrati a pieno regime i problemi che attendono i ristoratori non saranno comunque pochi. Sottolinea infatti Roberto Calugi, Direttore generale di Fipe-Confcommercio che “rimane un’incognita che rischia di compromettere questa ripresa: mancano all’appello circa 150mila lavoratori. In particolare stiamo parlando dei 120mila professionisti a tempo indeterminato che nel corso dello scorso anno, a causa dei troppi impedimenti imposti alle nostre attività, hanno preferito cambiare lavoro e interrompere i loro contratti. Si tratta di cuochi e bar tender di lunga esperienza, attorno ai quali, spesso, sono state costruite intere imprese. A questi si aggiungono altri 20mila lavoratori che lo scorso anno lavoravano a tempo determinato e che oggi, anche alla luce dell’incertezza sul futuro, potrebbero preferire strumenti di sostegno al reddito, invece di un vero impiego”.
A quanto pare molti dei lavoratori del settore della ristorazione, che per necessità hanno dovuto imparare nuovi mestieri, hanno poi scoperto una vita meno stressante rispetto ai ritmi forsennati che prima venivano loro imposti, con serate sempre occupate, pochi fine settimana liberi e le festività passate al lavoro.
A ciò si aggiunge la scarsa considerazione sociale – ammettiamolo, in quanti sono davvero orgogliosi di avere un figlio cameriere? – associata di solito a stipendi poco allettanti e ad una certa abitudine allo sfruttamento, soprattutto dei giovani, che fa loro considerare questo come un mestiere transitorio, magari per arrotondare durante gli studi fuori sede. Ed infatti, ecco un’altra delle ragioni della mancanza di personale: lo spostamento delle lezioni universitarie dalle aule fisiche alle piattaforme digitali, ha lasciato letteralmente a casa, nel proprio paese di origine, i tanti ragazzi che normalmente prestavano sevizio nei bar e ristoranti delle città universitarie.
La tanto invocata riapertura senza più limiti di tavoli e persone, l’eliminazione definitiva del coprifuoco prevista entro fine giugno, la concessione di ampie aree a plateatico a basso canone per bar e ristoranti, la nostra voglia di riappropriarci dei tanti momenti di convivialità perduti in un anno di lockdown, potrebbero insomma non bastare a rimettere in sesto tutte le aziende dell’ospitalità travolte dalla pandemia, e a questo punto vano sarebbe anche il nobile gesto di Sting.
Elisa Rocca
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