Si è appena conclusa la 125esima edizione del torneo più antico e prestigioso dell’intero panorama tennistico mondiale. E manda agli archivi i nomi di due vincitori, Petra Kvitova e Novak Djokovic, che, oltre ad iscrivere per la prima volta il proprio nome nell’albo d’oro dei “Championships”, segnano una svolta epocale nella storia del torneo e del tennis.
In campo femminile finisce ( è troppo presto per dire se definitivamente o meno) il dominio delle sorelle Williams, mentre in quello maschile termina il duopolio Federer-Nadal ( gli unici nomi presenti nel “roll of honour” dal 2003 ad oggi). Un torneo epocale, quindi, che ha sancito una sorta di rivoluzione in quelle che erano state delle gerarchie piuttosto rigide nel tennis mondiale e, più ancora, in quello su erba, superficie tradizionalmente favorevole all’instaurarsi di “dinastie” con serie piuttosto prolungate di successi di un numero alquanto circoscritto di atleti ( anche gli appassionati occasionali ricorderanno i cinque successi di fila di Bjorn Borg, i sette totali di Pete Sampras, i sei trionfi di Roger Federer o, in campo femminile, le nove affermazioni di Martina Navratilova, i nove sigilli complessivi delle due sorelle Williams, solo per citare gli esempi più significativi e limitandoci ai tempi a noi più vicini). Rilievo statistico, questo, che trova spiegazione nel fatto che l’erba, pur con tutti i cambiamenti che ha subito nel tempo e che l’hanno resa via via più “democratica”, non è mai stata una superficie per tutti, bensì per pochi “eletti”, in grado di decodificarne al meglio le caratteristiche di velocità, rimbalzi bassi e irregolari della pallina, impossibilità di ricorrere alle scivolate nella ricerca della palla. Tutte caratteristiche che si sono sempre sposate con giocatori e giocatrici dallo stile piuttosto aggressivo. E l’aggressività è una dote che non difetta certo ai due nuovi vincitori, anche se entrambi poco propensi ad attaccare la rete per giocare di volo e più votati a chiudere il punto con violente accelerazioni dal fondo, secondo quelli che da un po’ di tempo, ormai, sono i dettami tattici del tennis moderno. Andiamo con ordine, dunque.
Nella finale femminile, la prima mai giocata da due tenniste dell’Est Europa ( se consideriamo che nel 1986, contro la cecoslovacca [allora si diceva ancora così, anche se si era di Praga e dintorni, ndr] Hana Mandlikova s’imponeva Martina Navratilova, anch’ella cecoslovacca, ma con passaporto statunitense), Petra Kvitova, 21enne di Bilovec, Repubblica Ceca, ha battuto 6-3, 6-4 l’ex bambina prodigio del tennis mondiale, la russa Maria Sharapova. Data da tutti come la favorita d’obbligo. Per svariati motivi. A cominciare dalla posizione occupata nel seeding delle teste di serie ( n. 5 contro n. 8), per proseguire con i precedenti negli scontri diretti ( si era 1 a 0 in favore di Masha), con l’esperienza, in senso assoluto e limitatamente ai tornei dello Slam (una vittoria in Australia, una agli US Open e una proprio a Wimbledon, nel 2004, da 17enne) dove la Kvitova si affacciava per la prima volta in carriera a livello di finale, per finire con l’eccellente stato di forma denunciato dalla russa, capace di domare Roma, di giungere in semifinale a Parigi, dimostrando di poter competere ai massimi livelli anche su di una superficie, la terra, a lei sempre ostica. Eppure…Eppure già al termine della loro sfida al 3° turno ( vinta con un doppio 6-3 dalla Kvitova), la nostra Roberta Vinci, interpellata sulle possibilità della ceca di arrivare sino in fondo, aveva detto: “Sì, per me è addirittura una delle favorite” E Roberta, fresca vincitrice sulla meno nobile erba olandese, è una giocatrice che di tennis sui prati ne capisce. Più di molte altre celebrate colleghe. Una sorpresa, quindi. Ma fino ad un certo punto. A sorprendere è stato, più che altro, il punteggio piuttosto netto. Che farebbe pensare ad una partita senza storia. In realtà, le emozioni non sono mancate, soprattutto nel secondo set. Incamerato con relativa tranquillità il primo, infatti, la Kvitova si è trovata presto a condurre con un break di vantaggio nel secondo ( 2-0) a suon di botte di servizio e di diritto. Ma qui, un po’ di paura è affiorata e la Sharapova ne ha approfittato per riagganciare l’avversaria sul 2-2. La partita entrava, finalmente, nel vivo con la Kvitova che strappava nuovamente il servizio alla siberiana ( troppi, comunque, i suoi doppi falli, soprattutto nei momenti-chiave), salvo restituire immediatamente il break per il 3-3. Ma il break decisivo arrivava nel gioco successivo e, stavolta, Petra non restituiva più il favore, involandosi sul 5-3 per poi chiudere, tra gli applausi del pubblico e con gli elogi convinti di Jana Novotna ( l’ultima ceca ad alzare al cielo il piatto della vincitrice, nel 1998) e di Martina Navratilova, con un ace per il 6-4 conclusivo. A fine match, anche l’orgogliosa siberiana ha dovuto ammettere la chiara superiorità della ceca. Ora ci si interroga sulle prospettive future di questa giocatrice: reggerà a questi livelli? Se conferma i progressi di tenuta nervosa non dovremmo rischiare molto nel pronosticarle una prosieguo di carriera costellato da grandi trionfi. Senza voler scomodare gli abusati e scontati paragoni con l’immensa Martina cui l’accomunano il paese d’origine, l’esser mancina ( la terza a vincere nel singolare femminile, l’altra fu Ann Jones nel 1969, ndr) e lo stile di gioco aggressivo. Martina era interprete classica del tennis serve&volley ( anche se, come il suo, non se ne era mai visto uno altrettanto efficace ed elegante, né si sarebbe visto in seguito). Petra rappresenta, invece, l’evoluzione moderna del gioco. Basato su due colpi ( servizio e risposta) con cui è in grado, quando non ottiene direttamente il punto, di entrare nel campo e dettare a piacimento il ritmo dello scambio, e su un diritto semplicemente mortifero. La Sharapova lo ha imparato a sue spese. E parlare della nascita di una nuova stella non è affatto un azzardo.
Il giorno dopo sono scesi in campo i protagonisti della finale del singolare maschile: Rafa Nadal, detentore del titolo e numero 1 del mondo, e Novak Djokovic, che numero 1 lo sarebbe diventato in ogni caso il lunedì successivo ( questo perché, battendo in una spettacolare semifinale Tsonga, il giustiziere di Roger Federer, “Nole” si era già garantito, per il solo fatto di giocare la finale, il sorpasso in classifica, già mancato di un nonnulla a Parigi), dati i meccanismi del computer che sforna le classifiche ( inserendo i risultati della settimana appena disputatasi in luogo di quelli risalenti a 52 settimane prima). Lo spagnolo entrava in campo, se non come favorito, certamente come il più abituato, tra i due, a giocarsi il titolo sul centre court, potendo vantare i successi del 2008 e del 2010 ( oltre alle finali perse nel 2006 e 2007). Ma il serbo poteva mettere sul piatto della bilancia una miglior condizione di forma complessiva, un bilancio stagionale di 4 a 0 nei confronti diretti ( tutte finali, peraltro, giocate sul cemento di Indian Wells e Miami, e sulla terra battuta di Madrid e Roma) e, per l’appunto, la serenità di sapere di essere, in ogni caso, il nuovo numero 1 del mondo. Un fattore affatto secondario, la tranquillità. Soprattutto in una sfida tra due contendenti che, non amando nessuno dei due discostarsi troppo dalla linea di fondo, si sarebbero, presumibilmente, “presi a pallate”, giocando a specchio. Vecchia regola vuole, infatti, che, in assenza di contrasto di caratteristiche, vinca quello che, se non il più forte in assoluto, sta meglio nell’occasione. E già nella stretta finale del primo set si è capito quale dei due stesse meglio. Il primo parziale, infatti, registra un equilibrio assoluto fino al 5-4 per Djokovic. Qui, il fenomenale diritto di Rafa s’inceppa e, alla prima palla-break concessa da uno dei due contendenti ( che, però, data la situazione di punteggio, coincide con un set point), l’iberico deve cedere 6-4. Ed allora è il turno dell’altra grande qualità di Nadal, la sua straordinaria solidità nervosa unita ad una smisurata fiducia nei propri mezzi, a vacillare. Le inedite incertezze del mancino di Manacor si rivelano decisive in avvio di secondo set perché, al termine di games lunghi e contrassegnati da scambi di inaudita intensità, è Nole a prendere subito un break di vantaggio ( 2-0) e, sull’onda dell’entusiasmo, a proseguire nella sua opera di demolizione fino al 6-1 in 74’. A questo punto, però, il “Djoker” ha il torto ( meglio sarebbe l’umanità…) di tirare un po’ il fiato dopo oltre un’ora di tennis stellare giocato in apnea e, come d’incanto, Nadal ritrova colpi e, soprattutto, la sua proverbiale combattività. Lo spagnolo restituisce il 6-1 al serbo e, all’inizio del quarto set, dà l’impressione che i giochi siano completamente riaperti. La sensazione che si percepisce, infatti, è che ora inizi la vera partita. Di più. Che ci si giochi tutto ora. In un eventuale quinto set, un Nadal rinfrancato sarebbe pericolosissimo anche per questo Djokovic. Il serbo lo sa e, infatti, dopo aver salvato una palla-break in apertura, vola subito 2-0. Restituisce immediatamente, però, il break, complice anche un nastro che rende imprendibile una risposta senza pretese di Rafa. Si deve ricominciare. Nuovamente. Ad altri sarebbero tremate gambe e braccio. Al neo numero 1, no. Break decisivo per il 5-3 e, nel momento della verità, il braccio non trema. E’ il 6-4, 6-1, 1-6, 6-3, su un rovescio out di Nadal, dopo 2 ore e 28’ di gioco. Per la gioia dei genitori, Srdjan e Dijana, istruttori di sci, dei fratelli, Marko e Djordje, della bellissima fidanzata, Jelena ( laureatasi, peraltro, in Italia, alla Bocconi), ma anche del Presidente della Serbia, Boris Tadic, presente sulle tribune, e di una nazione tutta, in delirio davanti ai maxischermi e pronta ad accogliere con tutti gli onori del caso il suo nuovo eroe, dopo aver festeggiato tante volte altri protagonisti di altre discipline sportive ( basket in testa). Molto belle anche le parole dello sconfitto: “Ha giocato meglio di me. In alcuni tratti a livello molto, molto alto, è nel miglior momento della sua carriera, gioca con grande anticipo, è un giocatore completo, ottimi colpi da fondo e servizio, il migliore del mondo”. E, ancora ( e senza mai far menzione dell’infortunio patito nel match con Del Potro): “Nello sport è così. Capita che qualcuno ti batta e ti superi. E quando succede, tu devi lavorare ancora più duro e riprovarci, aspettando il tuo momento. Se non sarà la 6° volta, sarà la 7°. O più in là. Questo è come io intendo lo spirito dello sport”. E Djokovic, che sognava di vincere Wimbledon da quando aveva 4 anni e si è sempre allenato per diventare il numero 1 del mondo, non poteva sperare di meglio: festeggiare il primato nel tempio del tennis, contro il suo custode.
Daniele Puppo
Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *
Salva il mio nome, email e sito web in questo browser per la prossima volta che commento.
Δ
Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.
© Copyright 2020 - Scelgo News - Direttore Vincenzo Cirillo - numero di registrazione n. 313 del 27-10-2011 | P.iva 14091371006 | Privacy Policy