Soldi, soldi a palate, talmente tanti da dare alla testa, conditi da un vortice incontrollabile ed adrenalinico di droga, sesso, alcool, auto fiammanti, jet privati, in cui l’unica morale riconosciuta è quella del tornaconto personale, dell’avidità sfrenata e fine a se stessa. Questo in sintesi il tanto atteso “The Wolf of Wall Street” di Martin Scorsese, interpretato da uno spregiudicato e straripante Leonardo Di Caprio, motore e fulcro di immagini assordanti, maniacali, sopra le righe, a volte persino fastidiose per i benpensanti. Proprio per questo cattura l’attenzione e tiene incollati per tre ore di fila, con scene divertenti ed indimenticabili (sono già cult quella in cui il protagonista si batte il petto canticchiando con un ipnotico Matthew McConaughey o striscia per terra per risalire sulla sua Lamborghini, aprendola coi piedi, dopo aver provato il Quaalude con Jonah Hill). Alla domanda del perché ci teneva tanto a raccontare le vicende di Jordan Belfort, uno dei broker di maggior successo, passato alla storia per le sue estorsioni illegali nell’alta finanza, Di Caprio ha risposto:
Mi interessava mostrare quanto le persone possono perdersi in quella che è una grande intossicazione, uno stile di vita surreale”.
I fatti del film risalgono al 1987 ma sono parte di un problema più grande e attuale: la tendenza a consumare, a cercare di essere il più ricchi possibile senza curarsi degli effetti che questo può avere su altre persone, un’attitudine della nostra cultura. Guardi gli altri dicendo: ‘Io non sono così’, ma non è vero, dipende dalle circostanze in cui ti trovi”. Belfort, una sorta di “Caligola moderno”, diventa perciò solo un pretesto per raccontare qualcosa di molto più profondo, che va al di là della Wall Street degli Anni 80, talmente indisciplinata e fuori controllo da sembrare il selvaggio West. Dopo un inizio non proprio fortunato come apprendista broker, speculando sulla buona fede di investitori al pascolo della speranza, costruisce il suo impero, la Stratton Oakmont, con l’energia trascinatrice di una rockstar e l’aiuto di sfigati al seguito, servitori anche loro del Dio Denaro. Il perverso Robin Hood, che ruba per dare soprattutto a se stesso, inietta nello spettatore un mix di cocaina, testosterone e liquidi corporei, con il continuo rischio di sovradosaggio. Attraverso una girandola di truffe, conti in Svizzera, baccanali improvvisati in ufficio, fantasie psichedeliche e tradimenti reiterati ai danni della prima moglie Teresa e della seconda Naomi, esibita come un trofeo, dopo aver sfiorato addirittura la morte scampata per miracolo, Belfort riesce a perdere tutto per non essere riuscito a rinunciare all’unica cosa che lega le altre: la brama di potere. Un’autoimplosione quindi che si sarebbe potuta evitare, seguendo i consigli del saggio padre costretto a veder naufragare la vita, sempre giocata al rialzo e sul crinale dell’eccesso, del figliol prodigo. Il ciclo si chiude (per intercessione del FBI che ne smaschera gli illeciti) ma senza redenzione. Abbandona la Borsa ma non la voglia di continuare ad arricchirsi attraverso corsi sulle strategie di marketing. Il ritornello che rimane impresso è infatti: “Vendimi questa penna”. E come si fa? Non magnificandone le qualità o il valore d’uso, ma facendo credere al compratore che gli serva. Ed un modo per farglielo credere si trova sempre. Di Caprio (meritatamente in odore di Oscar) docet. D’altronde si sa, il lupo perde il pelo, ma non il vizio delirante…dei soldi.
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