Gli scafisti decidevano come torturare i migranti in base all’etnia: cinghiate per gli arabi, teste marchiate con i coltelli per gli africani, oltre a picchiare gli uomini sposati di fronte alle mogli. Lo hanno raccontato alla squadra mobile di Palermo alcuni dei circa 400 superstiti del naufragio di mercoledì al largo delle coste libiche, sbarcati ieri a Palermo dalla nave irlandese Niamh.
Il costo della traversata, secondo i sopravvissuti, andava da 1200 a 1800 dollari a persona. Gli scafisti si facevano pagare da 35 a 70 dinari libici – 25-50 euro – anche per i giubbotti di salvataggio.
I migranti di origini africane pagavano il prezzo più basso, ma in cambio gli scafisti, incuranti del fatto che la traversata sarebbe potuta durare tre giorni, li avevano chiusi nella stiva del peschereccio. Quando l’imbarcazione si è guastata, appena tre ore dopo la partenza, e ha iniziato a imbarcare acqua dal vano motori, avrebbero provato a uscire in coperta, ma gli aguzzini li avrebbero ricacciati indietro con coltelli e bastoni. Avrebbero poi costretto altri migranti a sedersi sulla botola che dava accesso alla stiva, condannandoli a morte certa.
Sulla base di queste testimonianze, i cinque uomini identificati come scafisti dopo lo sbarco sono stati tutti accusati di omicidio plurimo aggravato oltre che di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.
Si tratta di due algerini, Ali Rouibah e Imad Busadia, e tre libici, Suud Mujassabi, Abdullah Assanusi e Shauki Esshaush. Hanno tutti fra i 21 e i 26 anni.
Le vittime accertate sono 26, ma si teme che nel naufragio siano morte più di 200 persone: i disperati a bordo del peschereccio, secondo quel che hanno raccontato i superstiti, erano in 650.
Ora gli inquirenti proveranno a ricostruire i ruoli di ognuno nell’organizzazione del viaggio, ma dai racconti dei testimoni è emerso che due di loro erano di guardia al carico di esseri umani, mentre gli altri tre si occupavano di comandare l’imbarcazione.
Sulla questione dell’accoglienza ai disperati che arrivano dal mare è intervenuto stamattina papa Francesco, in un discorso ai ragazzi del Movimento eucaristico giovanile tenuto per il centenario della sua fondazione.
Il pontefice ha condannato fermamente chi pensa di risolvere la questione chiudendo le frontiere: respingerli “è guerra, questo si chiama violenza, si chiama uccidere”.
Il Papa ha fatto riferimento esplicito ai Rohingya – la minoranza musulmana della Birmania che subisce forti limitazioni ai diritti civili e non ha cittadinanza – ma il discorso è arrivato forte e chiaro anche a orecchie europee.
Conflitti e tensioni, ha detto il Pontefice ai ragazzi riuniti nell’aula Paolo VI, “fanno crescere, sviluppano il coraggio; e un giovane deve avere questo coraggio!”. “Una società, una famiglia, un gruppo di amici senza tensioni e conflitti sarebbe un cimitero”, ha proseguito papa Francesco. Ma questo a patto che le tensioni si superino con il dialogo, che permette di “andare insieme, senza perdere la propria identità”.
Per non degenerare in guerra, “il confitto si risolve con il rispetto dell’identità”. Ma questo, secondo quanto ha detto papa Francesco, non avviene nel caso dei Rohingya né delle minoranze religiose in Medio Oriente – nello specifico, il Papa ha citato i cristiani –, perseguitate “perché non si rispetta la loro identità”.
Un allarme che proprio oggi ha trovato riscontro nel sequestro, denunciato dall’Osservatorio siriano per i diritti umani, di 230 cristiani nella regione del Qalamun, in Siria, da pochi giorni nell mani dell’ISIS. Si tratta per lo più di sfollati dalla regione di Homs, accusati dai jihadisti di collaborazionismo con il regime del presidente Bashar al-Assad. Alcuni sono stati sequestrati nel monastero cattolico di rito siriano di Mar Elian, dove a maggio scorso è stato rapito il priore Jacques Murad.
Filippo M. Ragusa
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