Trentotto milioni di dollari su un imponibile di 150. A tanto ammontano le tasse pagate dal signor Donald Trump nell’anno fiscale 2005. Fatti i conti del caso, l’aliquota è del 25%.
In Europa sarebbe fantascienza, in America è comunque un ottimo risultato: è meno di quanto pagano i contribuenti della fascia media di redditi. D’altra parte, Trump si è sempre vantato di sapersi divincolare con astuzia dalla stretta dell’IRS, l’implacabile fisco USA: quello che incastrò Al Capone, per intenderci.
Ora sappiamo che in fondo alla spacconata c’è almeno un po’ di verità. A pubblicare la dichiarazione di dodici anni fa è stata la Casa Bianca. Si è trovata costretta ad agire dopo che David Cay Johnston, decano del giornalismo d’inchiesta vincitore di un premio Pulitzer nel 2001, ha mostrato una copia del documento mentre era ospite del programma di Rachel Maddow su MSNBC, un’emittente mai tenera con i repubblicani.
Da una quarantina d’anni a questa parte tutti i presidenti USA, tranne Trump, hanno reso pubbliche le proprie dichiarazioni dei redditi. A inaugurare la pratica era stato l’imperscrutabile Richard Nixon, che negli anni Settanta si doveva scrollare di dosso l’etichetta di Tricky Dicky, Dicky il furbacchione. Ma tutti i suoi successori erano stati ben contenti di seguire il suo esempio. Fino a Trump, appunto. Che invece, su questo, non ha mai cambiato idea. Tant’è vero che la Casa Bianca ha sì sgomberato il campo da dubbi sui suoi redditi del 2005, ma ha accusato MSNBC di averli pubblicati in modo “illegale”, e si è ben guardata dal fornire qualsiasi dettaglio non strettamente indispensabile.
E così, per esempio, sappiamo che per quell’anno Trump ha pagato solo 5,3 milioni in tasse federali, mentre il grosso della spesa è dovuto all’Alternative Minimum Tax, una sovrattassa che guarda caso, ora che è presidente, Trump vorrebbe abrogare. Sappiamo, se non altro, che ha pagato meno di un contribuente di reddito medio, che sugli scaglioni superiori deve versare oltre il 30% solo per l’aliquota federale. Fino a prova contraria, niente di illecito: per quanto ne sappiamo, lui e i suoi consulenti sono abilissimi a dare la caccia a sgravi ed esenzioni per pagare meno possibile.
Non sappiamo però niente degli anni successivi al 2005: né quanto abbia guadagnato il presidente, né da chi, e quindi – a differenza dei suoi predecessori – non abbiamo alcun elemento per scoprire eventuali conflitti d’interessi.
In campagna elettorale, il New York Times aveva rivelato che circa vent’anni fa Trump era riuscito a pagare zero tasse federali sfruttando un sistema di deduzione delle perdite. L’allora candidato repubblicano aveva sostenuto di non poter pubblicare la propria dichiarazione dei redditi perché “sotto accertamento” da parte dell’IRS. Ma dal fisco era arrivata una smentita secca: anche durante l’accertamento non c’è alcun obbligo di segretezza.
Nel romanzo fiscale di Trump c’è un altro punto misterioso. Come ha fatto Johnston a mettere le mani sui suoi documenti?
Il diretto interessato sostiene di averli ricevuti in un’email anonima, e di non poter ricostruire chi glieli abbia inviati. Si potrebbe trattare di una “talpa” interna all’IRS, ma il giornalista, tra il serio e il faceto, ha fatto anche un’altra ipotesi.
Potrebbe essere stato proprio Trump a mandarmelo. In passato ha fatto trapelare qualsiasi cosa…
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