Mentre il presidente uscente degli USA Barack Obama si prepara a ricevere a Washington il suo successore designato Donald Trump, migliaia di elettori delusi di Hillary Clinton sono scesi in piazza contro il risultato delle elezioni.
Intanto il futuro inquilino della Casa Bianca sta mettendo a punto la sua squadra di governo, e ha ricevuto un inatteso assist da Bernie Sanders.
Le manifestazioni più imponenti si sono viste a New York e a Chicago, la città di Obama. A Manhattan – nonostante la pioggia – migliaia di persone si sono radunate a Union Square e hanno sfilato verso la Trump Tower, quartier generale del miliardario sulla Fifth Avenue, al grido di “Not My President”. Tutto l’isolato dove sorge il grattacielo è stato circondato da un imponente cordone di sicurezza: lungo il perimetro sono stati schierati camion riempiti di sabbia (usati come scudi anti-bomba), le autorità cittadine hanno vietato di volare sopra l’area e schierato decine di agenti antisommossa. Sono stati arrestati una trentina di dimostranti.
Manifestazioni contro Trump si sono tenute in tutti gli stati “blu”, i feudi dem, ma anche nelle grandi città degli Stati che hanno preferito Trump con i voti degli abitanti dei piccoli centri. Oltre a Seattle, Portland, Oakland, San Francisco, Los Angeles, Boston, è scesa in piazza anche la gente di Philadelphia (Pennsylvania), Detroit (Michigan) e Austin (spesso considerata l’unica roccaforte democratica del Texas). E una piccola folla ha deciso di andare a protestare di fronte alla Casa Bianca, a Washington.
Dopo gli appelli all’unità fatti nella notte del trionfo dal neopresidente Trump, anche Hillary Clinton, che aveva aspettato fino a ieri, ha tenuto la sua conferenza stampa di rito. La candidata sconfitta ha invitato i suoi elettori a guardare avanti: “Dobbiamo accettare questo risultato e dobbiamo dare a Trump la possibilità di governare”. E ha fatto appello a donne e bambine perché rompano prima o poi il “soffitto di cristallo”, la barriera invisibile che vieta alle donne le posizioni di maggior potere e responsabilità, la missione storica che lei non è riuscita a compiere. Anche Obama, che si è detto orgoglioso di lei e ha ripetuto l’appello all’unità, si è proclamato convinto che “entrambi faranno un buon lavoro per tutto il mondo, lei e Trump”.
Intanto Bernie Sanders – il senatore del Vermont che nelle primarie dem aveva dato alla Clinton più filo da torcere del previsto, smascherando la sua incapacità di entusiasmare gli elettori – ha scritto sul suo sito di essere pronto a collaborare con l’amministrazione Trump per il bene delle classi popolari. Sono quelle stesse fasce di popolazione – “la classe media stanca dell’establishment politico, economico e dei media”, sintetizza Sanders – la cui “rabbia” è passata inosservata alla Clinton per essere invece compresa, e coltivata, dal miliardario.
Se Trump “fa sul serio nel voler perseguire politiche che migliorino la vita dei lavoratori in questo Paese”, spiega il senatore, “io e altri politici progressisti siamo pronti a lavorare con lui”, fermo restando che se invece “perseguirà politiche razziste, sessiste, xenofobe e anti-ambientali, noi ci opporremo con forza”.
L’insediamento ufficiale di Trump alla Casa Bianca, con la moglie Melania nel ruolo di first lady, è in calendario il prossimo 20 gennaio, ma lo staff del tycoon è già al lavoro per costruire la squadra che lo affiancherà. Negli USA, infatti, la nomina del presidente USA innesca un vasto spoils system con il ricambio di almeno 4 mila funzionari e altri posti di interesse pubblico: i ministri sono solo la punta dell’iceberg. È già partita la corsa alle indiscrezioni sui nomi dei collaboratori più stretti del presidente. Anche perché – almeno per i prossimi due anni – Trump governerà con un Congresso che almeno sulla carta gli è amico: i Repubblicani hanno la maggioranza sia alla Camera che al Senato. Non tutti i repubblicani sono suoi sostenitori, e si è visto bene durante le primarie del Grand Old Party, ma la forza che ha spinto in alto il partito è stata la sua personale vittoria nel duello per la Casa Bianca.
Trump ha un debito di riconoscenza verso Rudy Giuliani, l’ex sindaco di New York, che probabilmente diventerà Procuratore Generale. Giuliani, infatti, è stato il primo esponente repubblicano di prima grandezza a prendere sul serio la candidatura di Trump. Anche lui era entrato nel partito da “corpo estraneo”, dopo aver fatto il procuratore nel distretto sud della Grande Mela, e a suo tempo l’establishment lo aveva accolto con scetticismo.
Un altro nome sicuro nella squadra di governo è Chris Christie, governatore del New Jersey e capo del transition team che si sta occupando dell’insediamento di Trump alla Casa Bianca. Il suo endorsement al miliardario lo ha proiettato in testa alla corsa per la candidatura. Christie potrebbe essere il nuovo Segretario al Commercio, sempre che lo scandalo degli appalti per i lavori al Washington Bridge – uno dei ponti che collegano il suo Stato a quello di New York – non lo costringa a dirottare su una posizione più defilata.
Secondo alcuni quotidiani USA è sicuro della nomina anche Steven Mnuchin, che sarà Segretario del Tesoro. Laureato a Yale, dopo aver accumulato una fortuna in Goldman Sachs, Mnuchin è passato al timone della finanziaria Dune Capital ed è diventato direttore economico della campagna elettorale di Trump.
Per la carica di Segretario di Stato circola il nome di Newt Gingrich, uno dei guru ultraconservatori più influenti a Washington. Gingrich ha 73 anni e ha sostenuto Trump fin dai primi momenti della sua discesa in politica. Nel 2011 si era candidato anche lui alle primarie del GOP, ma senza successo. A insidiare la sua candidatura c’è un altro “riverito maestro” dei conservatori USA: il neocon John Bolton, che nell’era Bush fu ambasciatore all’ONU. Ma si fanno anche i nomi di Bob Corker, senatore del Tennessee e presidente della Commissione Esteri del Senato, e di Jeff Sessions, un “falco” dell’Alabama che ha collaborato con Trump durante la campagna elettorale.
I nomi di Corker e Sessions sono stati legati anche al dipartimento della Difesa, ma al Pentagono potrebbero finire l’ex consigliere per la Sicurezza Nazionale Stephen Adley o l’ex senatore Jim Talent. L’inglese Daily Telegraph invece nomina il generale Michael Flynn, di posizioni isolazioniste.
Anche per il dipartimento degli Interni c’è spazio per varie ipotesi. Si parla di Robert Grady, un altro reduce dell’amministrazione Bush, o di Sarah Palin, l’ex Governatrice dell’Alaska candidata alla vicepresidenza con John McCain nel ticket sconfitto da Obama nel 2008. In lizza ci sarebbe anche Forrest Lucas, 74 enne co-fondatore e CEO di LucasOil, ma la sua nomina aprirebbe un conflitto d’interessi: tra gli incarichi del Segretario all’Interno ci sono anche la tutela del territorio e la disciplina delle concessioni petrolifere e minerarie. E pare che la carica faccia gola anche a Donald Trump jr., figlio del neopresidente e della sua prima moglie Ivana.
Reince Priebus, il presidente del Comitato nazionale dei Repubblicani, sarebbe destinato alla poltrona di Capo dello staff della Casa Bianca. Priebus – molto vicino a Paul Ryan, lo speaker della Camera – farebbe da anello intermedio fra Trump e la segreteria del partito. E alla Casa Bianca lo potrebbe seguire anche il portavoce Sean Spicer.
F.M.R.
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