La scorsa notte in Turchia l’esercito ha tentato, senza riuscirci, un colpo di Stato contro il presidente Recep Tayyip Erdogan. Il bilancio per ora è di 190 morti e un migliaio di feriti. Avrebbe potuto essere molto più sanguinoso: i militari si sono rifiutati di sparare sui dimostranti pro-Erdogan.
La notte di follia è iniziata poco prima della mezzanotte, quando in Italia erano circa le dieci di sera. A Istanbul, la città più grande della Turchia, l’esercito ha bloccato i due ponti sul Bosforo, oscurato la televisione di Stato e bloccato i social network.
Ad Ankara, Erdogan si è rifugiato sull’aereo presidenziale e all’inizio sembrava che stesse cercando ospitalità in qualche altro Stato europeo. Per qualche ora si sono rincorse voci che lo volevano diretto a Berlino, poi a Londra o a Roma. Ma poi i reparti delle forze armate rimasti fedeli al presidente hanno ripreso il controllo dell’aeroporto Ataturk di Istanbul, ed Erdogan è riuscito ad atterrare e a concedersi un bagno di folla. Nel frattempo, il presidente era riuscito a mettersi in contatto con i giornalisti di una tv privata, la CNN-Turk, attraverso FaceTime, il servizio di videochiamate riservato agli iPhone.
È stato il punto di svolta che ha determinato il fallimento del colpo di Stato. I golpisti hanno dovuto prendere atto che l’opposizione a Erdogan, nel complesso delle forze armate, non era né universale né maggioritario. La Marina, ad esempio, si è rifiutata di aderire al golpe.
Per qualche ora i favorevoli e i contrari si sono scambiati colpi e bombe nelle due metropoli del Paese, Istanbul e la capitale Ankara. Qui il palazzo del Parlamento è stato colpito da un ordigno: le immagini dell’esplosione accanto alla cupola monumentale hanno fatto il giro del mondo. Ma nessun deputato è rimasto ferito. Danni e vittime si sono registrati anche nel faraonico complesso che ospita la residenza di Erdogan. Ma all’alba il Paese era già impegnato a pensare al dopo-golpe.
Umit Dundar – nominato capo di Stato maggiore ad interim, mentre il titolare Hulusi Akar era ostaggio dei golpisti in una base aerea alle porte di Ankara – ha diffuso un elenco delle vittime: tra loro si conterebbero due soldati, 41 agenti di Polizia, 47 civili e 104 ribelli. Intanto sono iniziate le epurazioni fra le alte cariche dell’esercito, con cinque generali e ventinove colonnelli rimossi dai loro incarichi. E stamattina l’agenzia semi-ufficiale Anadolu ha battuto la notizia della liberazione di Akar.
Il presidente Erdogan, senza artifici diplomatici, ha accusato del golpe Fethullah Gulen, il suo ex-alleato divenuto il suo primo nemico politico. Gulen è un predicatore e il capo di un impero economico fondato su una rete di media e scuole confessionali, che vive in esilio autoimposto negli USA. Sostiene di non avere mire politiche, ma solo civiche e sociali; ma sta di fatto che il suo movimento – Hizmet, “il Servizio”, che propone un islamismo conservatore nella società, ma rispettoso del pluralismo democratico e del dialogo interreligioso – ha milioni di simpatizzanti in Turchia, ed è ben rappresentata nelle forze armate, nei media e in Parlamento. Gulen ed Erdogan sono stati alleati fino al 2013: il presidente accusa il predicatore di aver rivelato la rete di corruzione che ha scatenato un terremoto nel partito AKP, generando uno scandalo internazionale.
Gulen, però, ha respinto l’accusa di essere il burattinaio del golpe. “Per qualcuno come me che ha sofferto sotto diversi colpi di Stato militari negli ultimi cinque decenni – ha detto – è particolarmente offensivo essere accusato di avere legami con un tentativo del genere”.
I colpi di Stato militari, infatti, sono una presenza ricorrente nella storia moderna della Turchia. Nell’assetto istituzionale voluto da Ataturk, l’esercito ha il ruolo di ultima garanzia dei principi fondamentali su cui si fonda lo Stato – repubblicanesimo, populismo, nazionalismo, laicità, statalismo e riformismo – e interviene quando questi sono in pericolo. È accaduto nel 1960 e poi ancora nel 1971 e nel 1980. Ancora nel 1997, le forze armate costrinsero l’allora premier Necmettin Erbakan, “colpevole” di intrattenere rapporti economici e diplomatici privilegiati con gli altri Stati a maggioranza musulmana, a sottoscrivere un decalogo o dimettersi, cosa che in effetti avvenne. In Turchia l’evento è passato alla storia con il nome di “colpo di Stato postmoderno”. Anche Erdogan è nel mirino dei kemalisti per la forte impronta religiosa data alla sua politica.
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