Una faticosissima gestazione, 88 giorni, prima del varo del governo giallo-verde, in carica dal 1 giugno 2018 sotto la guida di Giuseppe Conte. Oltre un anno di tira e molla, grandi litigi e riappacificazioni, ma ora sembra giunto il momento del divorzio. Dal reddito di cittadinanza, a quota 100, dalla stretta su migranti e alle nuove misure sulla sicurezza passando per la battaglia con Bruxelles sull’asticella del deficit, fino agli scontri più duri su Tav, autonomia, i casi Siri e fondi da Mosca: oltre 12 mesi sulle alti e bassi, densi di polemiche ma anche di risultati portati a casa. Il famoso “contratto” (fonte AGI) L’avventura inizia il 18 maggio del 2018 quando Lega e 5 Stelle annunciano il varo definitivo del contratto per il governo che contiene i punti programmatici da realizzare. Il 6 giugno, il governo M5s-Lega guidato dal giurista Giuseppe Conte ottiene la fiducia della Camera. Ma prima di arrivare a questo risultato l’incertezza politica, con la spada di Damocle di un governo tecnico, aveva fatto schizzare lo spread tra Btp e Bund tedeschi a 320 punti. I mesi estivi sono invece segnati dal crollo del Ponte Morandi, a Genova. E un forte segnale del consenso che il ‘governo del cambiamento’ cominciava a riscuotere tra la gente fu proprio il lungo applauso tributato ai vice premier Matteo Salvini e Luigi Di Maio in occasione del funerale delle vittime. Le misure sulla sicurezza e l’abolizione della povertà Risale all’autunno scorso l’approvazione della legge su sicurezza e immigrazione voluta da Salvini. Il ministro dell’Interno aveva disposto la riforma del sistema di accoglienza che ha portato al superamento dello Sprar e alla riduzione dei fondi, mentre continuava la cosiddetta politica dei ‘porti chiusi’ ovvero il blocco dell’arrivo delle navi Ong che avevano soccorso i migranti. Il clima si era poi scaldato durante la preparazione e il varo della manovra che prevedeva le due misure bandiera, il reddito di cittadinanza, per i 5 stelle, e ‘quota 100’ sulle pensioni, per la Lega. A settembre, fece ad esempio scalpore l’esultanza di Di Maio, al termine del Consiglio dei ministri in cui M5s e Lega avevano trovato l’accordo sul Def (fissando l’obiettivo di deficit/Pil al 2,4%). Affacciato al balcone di Palazzo Chigi, con gli altri ministri del Movimento 5 Stelle, il vicepremier festeggio’ di fronte a un gruppo di parlamentari pentastellati, con bandiere e striscioni, in piazza Colonna. “Oggi aboliamo la povertà”, aveva scandito il capo politico dei 5 stelle. In coincidenza con la discussione della legge di bilancio potrebbe essere identificata una ‘fase due’ dell’esecutivo, durante cui, nella lunga e difficile trattativa con la Commissione europea per la definizione degli obiettivi della manovra, il presidente del Consiglio riuscì a ritagliarsi un ruolo da protagonista. Spesso, prima di allora, messo in ombra dai suoi due ‘ingombranti’ vice, Conte aveva evitato la procedura di infrazione da parte dell’Ue, negoziando un obiettivo di rapporto deficit/Pil per il 2019 pari al 2,04% (e quindi rivisto rispetto al 2,4% iniziale). Dopo l’ok alla legge di bilancio, era atteso un momento di relativa ‘pace’ tra alleati. Ma da gennaio era partita l’offensiva del M5s – fase tre – che ha cercato di reagire alla predominanza di Salvini e ha sostanzialmente avviato la campagna elettorale in vista delle Europee del 26 maggio dove la vittoria della Lega è stata schiacciante. Con l’ultimo mese particolarmente cruento, con quotidiani e feroci duelli tra alleati al limite dell’insulto. La manina e la Diciotti Un altro caso di grande tensione nella maggioranza è rappresentato dal cosiddetto caso della ‘manina’, cioè quando Di Maio, a ottobre scorso, accusò i leghisti di aver cambiato di nascosto (appunto con una ‘manina’) il decreto fiscale, introducendo un condono avverso al Movimento. Le fratture però si sono sempre, anche se a fatica, rimarginate e i senatori 5 stelle addirittura si schierarono a difesa di Salvini, arrivando, per la prima volta nella storia del Movimento, a votare contro una richiesta di autorizzazione a procedere (contro il ministro dell’Interno, accusato di sequestro aggravato di persona nel caso della nave Diciotti). Il caso Siri e la questione Tav Ma è sulla ‘cacciata’ del leghista Armando Siri che si consumò lo strappo più profondo, a pochi giorni dal voto europeo. L’8 maggio 2019, come annunciato, il presidente del Consiglio revocò l’incarico a Siri, durante un lungo consiglio dei ministri in cui la Lega ribadì la propria contrarietà alla scelta di Conte, garantendo piena fiducia al premier. Ma è stato solo tre settimane fa che si è riacceso ‘l’incendio’ sulla Tav. Il 18 luglio il leader della Lega ha tuonato contro l’alleato. Il governo “va avanti se fa cose, sennò è inutile. È venuta meno anche la fiducia personale”, ha detto annunciando che il giorno seguente non avrebbe partecipato al Consiglio dei ministri. Quello stesso giorno ha poi corretto il tiro nei confronti di Luigi Di Maio (“Di lui mi fido. È una persona per bene, ma altri non sono all’altezza”) ma la miccia si era ormai accesa e negli ultimi 21 giorni si è arrivati al punto di non ritorno. Ai già tanti temi di scontro si è aggiunta anche la riforma della giustizia, che arrivata in Cdm è stata liquidata e bocciata da Salvini: “E’ acqua, non c’è la separazione delle carriere”. Due giorni fa il Senato ha bocciato la mozione con cui il M5s chiede al Parlamento di fermare la Tav. Passano tutte quelle a favore della Torino-Lione. La Lega vota con il Pd e oltre al gelo è così calato forse anche il ‘sipario’ tra i leader dei due partiti di maggioranza.