“La cosa più preziosa che puoi ricevere da chi ami è il suo tempo. Non le parole, i fiori o i regali, ma il tempo. Perché quello non torna indietro, quello che ha dato a te è solo tuo, non importa se è stata un’ora o una vita”.
Se a scriverlo non fosse stato un bambino di 11 anni, gravemente malato, ma un adulto nel vigore delle forze, avremmo già silenziosamente commentato che, vivaddio, qualcuno si rende conto che il tempo è un dono prezioso e in quanto tale deve fruttare anche a beneficio del prossimo. Questa eccellente lezione di vita viene invece da un baby paziente dell’ematologia pediatrica del San Gerardo di Monza. Un insegnamento che per Momcilo Jankovic, responsabile di questa Unità operativa Day hospital, è da applicare a tutto l’ospedale.
Tempo e ascolto, “tempo che cura”, insieme all’onestà e al sorriso. Ed è uno dei principi ribaditi in una Carta che chiede ai medici di puntare il proprio sguardo sulla sofferenza del bambino malato e di non distoglierlo. Il documento, presentato oggi a Milano e promosso dalla Fondazione Giancarlo Quarta Onlus, è frutto del lavoro avviato con un convegno da un pool interdisciplinare composto da oltre 100 medici, psicanalisti, sociologi e giornalisti, con l’obiettivo di aiutare il personale sanitario nel difficile compito di relazionarsi col bambino malato grave e con la sua famiglia. In pochi punti sintetizza gli specifici bisogni relazionali dei piccoli pazienti e i comportamenti per soddisfarli, perché “anche la relazione è un atto medico”, precisano gli esperti.
Adesso si punterà a diffondere il più possibile questo lavoro. “C’è anche la volontà di pubblicare la Carta entro il 2017 su una rivista scientifica a livello nazionale e in versione inglese anche a livello internazionale”, spiega Jankovic. Intanto oggi il documento incassa la firma dell’assessore al Reddito di autonomia e inclusione Sociale della Regione Lombardia, Giulio Gallera, che ha assicurato “l’impegno della Regione per la diffusione negli ospedali del territorio”. La Carta è stata sottoscritta, fra gli altri, anche dallo psichiatra e scrittore Eugenio Borgna, dal giornalista e presidente di Vidas Ferruccio De Bortoli, dal ricercatore e sociologo Enrico Finzi, dal responsabile della Terapia intensiva pediatrica del Policlinico di Milano Alberto Giannini e da tanti altri, e sarà proposta man mano ai reparti di Pediatria degli ospedali italiani perché l’adottino.
Primo ‘comandamento’: dire la verità, con opportuni tempi e modi, per aiutare il bambino a capire cosa gli sta succedendo. E poi costruire un rapporto di fiducia per soddisfare il bisogno di sentirsi protetto e sicuro; dare speranza, e non illusione, massimizzare la felicità possibile nella condizione imposta dalla malattia; ascoltare i bisogni del bambino, riconoscendolo come specifico individuo; orientare i genitori nelle decisioni, a volte difficili.
La Carta sintetizza la missione della Fondazione: aiutare i medici perché possano aiutare i malati”. Il trauma per un bambino che entra in ospedale e i suoi genitori, precisa Jankovic, “è il cambiamento di vita. Riportare alla normalità la famiglia, pur dovendo fare cure o esami, non è così facile. Saper osservare e ascoltare, pur tenendo noi medici le redini, è un valore aggiunto”.
Una Carta “è importante perché questi aspetti difficilmente i libri e le scuole di formazione te li tramandano e gli spunti in letteratura sono dispersi”. I processi di cui si parla “richiedono dedizione e tempo, quel tempo tiranno che a volte noi non vogliamo avere. Non si tratta di ritagliare momenti per parlare a un bambino, parlargli è parte integrante della nostra professionalità e dobbiamo dedicare tempo a questo esattamente come ad altre cose, essere in grado di suddividere le nostre giornate nella maniera più adeguata”.
Lo chiedono anche i genitori: “Per noi la parola chiave è umanità”, spiega Adele Melzi, mamma di Bianca, una bimba che dal 2014, da quando aveva 10 anni, combatte contro una leucemia linfoblastica acuta. “La vita in ospedale sarebbe migliore se ci fosse una comunicazione profonda fra genitori e medici. Una mamma e un papà hanno bisogno di fiducia, conferme, precisazioni, supporto. Non si può essere tranquilli finché non si tira fuori del tutto il proprio figlio da un tumore. Se c’è un contatto, un aiuto ad hoc, il tutto è più sopportabile”. Adele parla dei protocolli di cura che “generalizzano molto” e della “necessità che il proprio figlio non sia considerato un numero ma una persona con il suo carattere e le sue esigenze, nella sua unicità. Per i medici è certamente utile una linea da seguire”, riflette.
Un altro impegno a cui “non ci si può sottrarre” è stare attenti al linguaggio non verbale “con cui i bambini comunicano tante cose”. Adele cita poi il ruolo delle infermiere, “verso le quali non smetterò mai di avere gratitudine”. E parla di “forza di andare avanti che devono avere i genitori, ma anche i medici. Ci si adatta a tutto, ma il messaggio è che per rendere la situazione meno traumatica serve una relazione, serve empatia”.
Tenere un equilibrio è una missione difficile per i camici, ma “necessaria”, dice Jankovic. “Dall’attenzione a evitare la sproporzione terapeutica all’importanza di essere completamente”, anima e corpo, “davanti a un bambino. Capire le esigenze, diverse a seconda dell’età. Va tenuto presente che il bambino elabora la morte, l’importante è aiutarlo a farlo nel modo corretto, parlarne con la serenità, la completezza e la convinzione che solo l’operatore sanitario può avere. Se dalla parte dei medici ci può essere eccessiva professionalità e dalla parte dei genitori paura, timore e incertezza, combinare questi due fronti insieme è la via migliore”.
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