Flavia Pennetta e Roberta Vinci: finale tutta italiana allo Us Open
Possiamo smettere di darci pizzicotti sulle guance, è tutto vero. Incredibilmente vero. Meravigliosamente vero. La finale del singolare femminile degli Us Open 2015, presentati alla vigilia come quella che doveva essere la tappa conclusiva della marcia trionfale di Serena Williams sulla via del Grande Slam e dell’immortalità tennistica, passerà alla storia come la prima finale di uno dei quattro majors tutta azzurra. Di più, tutta “made in Puglia”. Flavia Pennetta prima, e Roberta Vinci a seguire hanno riscritto la storia del tennis (e non solo) italiano. E non contro avversarie qualunque, magari due outsiders regalate in sorte da un destino benevolo, ma contro Simona Halep e, soprattutto, l’asso pigliatutto “Serenona”. Ossia la n. 2 e la monarca assoluta del circuito Wta (imbattuta negli ultimi quattro Slam e sconfitta solo due volte nell’intero 2015, da Kvitova a Madrid e da Bencic a Toronto). Un 11 settembre che lo sport italiano potrà ora ricordare anche per motivi non funesti.
Una raggiante Flavia Pennetta: Halep k.o.
Flavia Pennetta, brindisina, 33 anni compiuti il 25 febbraio, aveva l’impegno, sulla carta, meno impossibile: battere quel piccolo demonio della Halep, giocatrice capace come nessun’altra di rovesciare una fase difensiva in un contrattacco spesso letale per ogni avversaria (come constatato sulla propria pelle da Vika Azarenka, battuta dalla romena in un appassionante braccio di ferro nei quarti nonostante un intero match giocato in costante forcing), dal tennis facile e dalle geometrie che ricordano quelle euclidee di Martina Hingis. Contro una simile rivale, occorreva una Flavia perfetta. E non sarebbe neppure bastato. In tanti ci chiedevamo, dopo la già considerevole impresa compiuta nei quarti rimontando la bicampionessa di Wimbledon, Petra Kvitova, da 4-6 e 1-3, quale avversaria sarebbe stata preferibile per la brindisina in semifinale: la picchiatrice Azarenka o il compuetrino Halep. E in non pochi si pensava che la bielorussa almeno avrebbe portato in dote un considerevole numero di errori gratuiti oltre ai consueti vincenti. Del resto, il precedente più recente, l’unico da quando la Halep è entrata nel gruppetto delle migliori, quello di quest’anno a Miami non era incoraggiante. Invece, è arrivata la prestazione impeccabile della brindisina che, unita ad inconsueti errori di misura della rumena, hanno prodotto un abbrivio shock con un 6-1 in appena 28 minuti che ha lasciato tutti a bocca aperta. Seguito da un break in avvio di secondo set con una Halep assolutamente incapace di gestire le variazioni di ritmo dell’azzurra. Poi, il ritorno, prepotente, della n. 2 del mondo che infilava un parziale di 3 giochi consecutivi per l’1-3 che faceva pensare ad un’altra maratona sfibrante al terzo set con il cuore in mano. Ma non si faceva a tempo a metabolizzare la disillusione per un match che, da cavalcata solitaria, si stava improvvisamente complicando, che Flavia mostrava la maturità e la calma delle forti. Ricominciava, la brindisina, ad alternare martellate piatte a palle lavorate come nulla fosse e la Halep ripiombava nel tunnel della frustrazione. Un parziale irreale di ben 15 punti a 0 (con tanto di un break concesso con un doppio fallo, segnale dello stato confusionale della rumena) ci restituiva il film del primo set che tanto ci era piaciuto. Con una chicca: la Halep, non sapendo più come risalire la corrente, si avventurava in un (per lei) inedito drop shot cui Flavia replicava con una perfetta controsmorzata che lasciava attonita la rivale. Simona Halep costretta a dover fuggire dallo scambio, dalle sue ipercollaudate traiettorie pur di sottrarsi ai laser chirurgici della nostra! Il 6-3 conclusivo si materializza dopo 31 minuti in cui il braccio di Flavia non ha mai tremato per una finale che, come ammesso dalla stessa brindisina: “Per me vale tutto!”. Assieme ad un’altra confessione: “Vedere lei, la n. 2 del mondo, frustrata è figo. Lo ammetto”. Eh sì, proprio una gran “figata” questa prima semifinale. Lo pensavamo tutti noi, appassionati di lungo corso come neofiti. Alcuni con gli occhi già un pò lucidi. E quasi appagati da questa splendida pagina di tennis tricolore. Sin qui anche, per peso specifico dell’avversaria battuta in rapporto all’importanza della posta in palio, la più grande affermazione di una nostra rappresentante ( o quantomeno alla pari con il miracolo di Linda Ferrando che stoppò la Seles nel 3° t. dello Us Open 1990, ma era , appunto un terzo turno e con la vittoria della Schiavone sulla Stosur nella finale parigina del 2010, decisamente più probante della vittoria di “Tax” Garbin su un’acciaccata Henin al 2° t. dello Slam francese nel 2004). Un primato durato circa due ore e mezza (includendo la pausa tra le due semifinali).
Roberta Vinci chiede l’applauso del pubblico Usa dopo aver battuto Serena
Perchè se l’impresa di Flavia rientrava nel novero del difficilissimo, ma pur sempre possibile, quello che ha saputo combinare la sua corregionale non rientrava neppure nel concepibile. Un upset, come chiamano gli anglofoni un risultato inatteso, di proporzioni tali da collocare Roberta Vinci, tarantina, 32 anni compiuti il 18 febbraio, non solo in finale dello Us Open ma anche in vetta ad un’ipotetica graduatoria di imprese leggendarie non solo confinata al recinto di casa nostra, tanto tra le donne che tra gli uomini (superiore, per portata, anche ai due successi parigini di De Stefani sul mitico Fred Perry negli anni ’30), ma in grado di rivaleggiare, e con successo, con le vittorie della Sukova sulla quasi imbattibile Navratilova del 1984 agli Australian Open (curiosamente, essendo all’epoca lo Slam down under l’ultimo dei quattro in calendario, anche in quel caso il tentativo di Grande Slam si arenò crudelmente a due sole tacche dal traguardo, ma la figlia di Vera, ex finalista di Wimbledon, era comunque tra le più forti giocatrici in circolazione e avrebbe chiuso l’annata al n. 7 del ranking Wta) e della Horvath sull’imbattibile Martina del 1983 al Roland Garros (senza il quasi perchè, in effetti, quella fu l’unica sconfitta della mancina dal braccio d’oro in tutto l’anno e gli sarebbe costata, anche se con il senno di poi, il Grande Slam anche in quell’occasione) ma si era comunque su terra, la superficie meno gradita alla Navratilova; decisamente superiore anche allo stupore generato dalla vittoria della McNeil su Steffi Graf a Wimbledon 1994 (era solo un primo turno e l’americana di colore una comprovata specialista di prati e superfici veloci, già in grado di battere la Evert agli Us Open), a quello riportato da Arantxa Sanchez nella finale parigina del 1989 (la stessa edizione di Chang-Lendl…) sempre su Steffi perchè comunque la spagnola si capiva che sarebbe divenuta una delle protagoniste soprattutto sul rosso, a quello di una giovanissima Jelena Dokic su Martina Hingis a Wimbledon 1999 (ma la potenza e il talento della nativa serba erano già lampanti e le avrebbero dischiuso un futuro roseo che solo eventi esterni seppero pregiudicare), per finire con quello di Marion Bartoli su Justine Henin nella semi di Wimbledon 2007 (ma poi la francese avrebbe fatto comprendere come la sua attitudine erbivora fosse tutt’altro che occasionale…). Di più, la vittoria di Roberta su Serena Williams entra di diritto nella galleria delle più grandi sorprese nella storia dello sport tutto, alla stregua di un “Miracle on Ice” (la vittoria della nazionale dilettantistica Usa sull’invincibile Urss nel torneo olimpico di hockey ghiaccio di Lake Placid 1980 che sarebbe valsa l’oro ai padroni di casa), dell’Europeo di calcio conquistato dalla Grecia in Portogallo nel 2004, alla vittoria per 1-0 dei dilettanti statunitensi sugli spocchiosi “maestri” inglesi al Mondiale di calcio del 1950, per non parlare dell’incredibile k.o. subito da Mike Tyson con Buster Douglas a Tokyo nel febbraio 1990. A maggior ragione, visto che la Vinci ha dovuto risalire la corrente dopo aver ceduto nettamente il primo set per 2-6 , salvo poi, ristabilita la parità con il 6-4 del secondo parziale, essersi vista scappare ancora la fortissima avversaria sul 2-0 in apertura della terza e decisiva frazione, prima di completare la rincorsa chiusa con un 6-4 che farà epoca.
Serena Williams a terra: è lei la grande sconfitta di questo Us Open
Ha giocato il match della vita, Roberta, il match che, comunque vada a finire la finale di stasera, vale, da solo, un’intera carriera, sin qui ottima ma da ora in poi impreziosita da una gemma così splendente da apparire sotto una luce diversa anche agli occhi un pò superficiali di chi pensava che la tarantina potesse essere più che altro solo una grande doppista. Forse, paradossalmente, non una partita perfetta: “Il mio servizio andava un pò a sprazzi oggi, non così bene come sarebbe dovuto andare. Ho avuto molti problemi soprattutto sulla seconda di servizio” , ha ammesso Roberta a fine match. Ed, in effetti, a voler guardare il pelo nell’uovo, anche i 19 winners per chi, come lei, gioca un tennis così rischioso non rappresentano un dato così straordinario. Ma, per una volta, chissenefrega. Per una volta tanto ci prendiamo più che volentieri anche i tanti errori non forzati commessi da “Serenona” (40 alla fine, tanti, troppi, soprattutto con il rovescio) senza temere di esser tacciati di antisportività perchè lo sport è fatto anche di questo, di errori grossolani (e tanti ne ha commessi l’afroamericana) e di cedimenti improvvisi (e i nervi della Williams non hanno retto) dei favoriti, come della bravura degli “underdog” di saperne approfittare. Serena ha fatto il match, perchè nasconderselo, come da copione, ma ha anche disfatto. Quasi in egual misura. La pressione che la n. 1 del mondo aveva addosso era enorme, lo sapevano tutti lei compresa, ma nessun’altra giocatrice era stata capace sin qui di trasformare questa soffocante attesa del Graal tennistico in un’arma micidiale per sottrarre sicurezza alla minore delle Williams. Molte ci erano andate vicino, qui (in parte la Bertens, ancor più la Mattek- Sands) come altrove (si pensi a Watson ed Azarenka a Wimbledon o alle innumerevoli rimonte a Parigi), ma nessuna ci era riuscita così bene come Roberta. E la tarantina lo ha fatto non giocando un tennis di contenimento, in attesa degli errori di un’avversaria sull’orlo di una crisi di nervi (Serena è solita urlare per autoincitarsi, soprattutto nei momenti “caldi”, ma ieri i decibel erano ben sopra la media), ma senza snaturare il suo schema così classico quanto rischioso. Arricchito, però, da una niente affatto scontata tenuta nello scambio. Anzi, la maggior parte degli scambi prolungati vedeva “Robertina” uscirne vittoriosa (quanti i dritti andati a segno…) ed era molto più Serena a cercare di forzare conclusioni anzitempo per sottrarsi all’infida ragnatela che il back di rovescio dell’azzurra tesseva. Già il back. quante giocatrici oggi sono in grado di giocare questo tipo di rotazione con tale continuità e maestria in questo panorama di bimani forzute? Bisogna tornare indietro nel tempo alla Henin (che comunque prediligeva giocare il rovescio coperto ma senz’altro uno dei più bei rovesci che si siano mai visti, maschietti compresi ), alla Mauresmo, alla Novotna, alla Tauziat, alla Martinez. E da allora di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia. Questa desuetudine a fronteggiare rotazioni con il taglio all’indietro spiega, in parte, le difficoltà incontrate da Serena (fatte le dovute proporzioni, ambasce simili le hanno in molti tra coloro che hanno affrontato ultimamente un rinato Feliciano Lopez, re Djokovic incluso). L’abilità della Vinci nell’adottarle e nell’alternarle a soluzioni più potenti e la tensione che stava divorando Serena hanno fatto il resto. Il tutto nobilitato da colpi straordinari come le due demi-volèe che Roberta ha messo a segno nel momento della verità quando ha servito sul 5-4 del terzo set. E la tremarella ai polsi sarebbe stata più che comprensibile. Semplicemente straordinario, poi, il rendimento del dritto, il colpo con cui Roberta ha sia costruito buona parte dei suoi punti sia capitalizzato le aperture che il rovescio in back le procurava. Ma nessuno, nemmeno tra il pubblico da tutto esaurito accorso all’Arthur Ashe Stadium, potrà mai dimenticare lo scambio mozzafiato di ben 18 colpi sul 3-3 del 3° set con Serena al servizio e vantaggio interno. Dopo aver piazzato una mirabile stop volley di dritto vincente, Roberta si rivolgeva al pubblico urlando: “Adesso dovete applaudire anche me, c…zo!”. Un pubblico, quello newyorkese, chiaramente tutto schierato per la beniamina di casa, pronto, giustamente, ad accompagnarla alla conquista dell’immortalità. Ma altrettanto pronto, alla fine, ad acclamare l’inaspettata vincitrice dopo che questa, a vittoria acquisita, si è rivolta a tutto l’immenso catino di Flushing per dire: “Sorry guys” , quasi a scusarsi per aver rovinato la festa che gli appassionati a stelle e strisce già pregustavano. In pochi secondi, da guastafeste a beniamina. Un’altra piccola impresa nella giornata più epica che il nostro tennis ricordi. Quanto alla grande sconfitta, Serena Williams, per lei, subito infilatasi negli spogliatoi a fine partita e piuttosto a disagio anche in conferenza stampa, la magra consolazione di aver realizzato il secondo (ma ben meno prestigioso) “Serena Slam” della carriera dopo i quattro majors messi in fila tra il 2002 e il 2003. Un brodino amarissimo per colei che, forse più di altre, può aspirare al simbolico titolo di Goat.
Vinci e Pennetta sulle prime pagine di tutti i giornali
E di impresa si deve parlare anche di fronte al dato statistico che vuole che quella in programma stasera alle ore 21 (pioggia permettendo) sia la prima volta che un tennista italiano, uomo o donna che sia, riesca a spingersi sino all’atto conclusivo di uno Slam diverso dal Roland Garros e dall’amata terra rossa, da sempre l’unica vera fonte di soddisfazioni per le nostre racchette.
Ma, se vogliamo, l’impresa più grande realizzata dalle nostre due campionesse è stata quella di aver occupato la prima pagina di tutte le testate giornalistiche anche generaliste del nostro paese e di essersi viste dedicare persino l’apertura dell’edizione odierna del Tg1 (oltre ad un viaggio ad hoc del presidente del Consiglio)! In un paese come il nostro, da sempre affetto da monocultura calcistica, un impatto mediatico senza precedenti che non potrà che giovare a tutto il movimento.
Stasera, potremo, per una volta, augurarci senza ipocrisie che vinca davvero la migliore, tanto, dopo Berlino, anche il cielo sopra New York, sarà, vada come vada, tutto colorato di azzurro.
Comunque vada, N. Y. sarà azzurra
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