Soltanto stanotte sapremo chi è il 45° Presidente degli Stati Uniti, ma intanto milioni di americani si stanno recando alle urne, costretti a scegliere fra i due candidati meno popolari di sempre: il rude Donald Trump e la poco simpatica Hillary Clinton.
Oltre al successore di Barack Obama gli elettori, a seconda dello Stato in cui votano, sceglieranno i membri della Camera dei Rappresentanti, un terzo dei senatori e si esprimeranno su una serie di quesiti locali, dai diritti degli animali alla liberalizzazione della cannabis.
I seggi sono ormai aperti in quasi tutti gli Stati: mancano solo Alaska e Hawaii, dieci e undici ore indietro rispetto all’Italia. I risultati definitivi arriveranno a notte fonda o nelle prime ore di domani mattina. Le prime indicazioni ufficiali arriveranno dai primi exit poll, attesi quando in Italia saranno le 21.
“Farò del mio meglio se avrò la fortuna di vincere”, ha detto la Clinton ai suoi sostenitori radunati fuori dal seggio dove ha votato, a Chappaqua, nello stato di New York. “Così tanta gente dimostra come il voto di oggi sia importante per il futuro del Paese”. Accompagnata dal marito Bill Clinton – Presidente per due mandati, dal ’92 al 2000 – l’ex Segretario di Stato è apparsa serena, ma piuttosto provata dalla campagna elettorale.
Donald Trump ha votato qualche ora dopo nell’Upper East Side di New York, assieme alla moglie Melania. Il miliardario ha salutato i suoi sostenitori e si è soffermato con un bambino che aveva allestito un banchetto per vendere biscotti nella scuola che ospita il seggio.
Negli ultimi giorni di campagna elettorale, lo staff di Trump gli ha impedito di usare il suo account Twitter per evitare nuove gaffe. Ma il candidato repubblicano ha affidato la sua ultima esternazione a un’intervista rilasciata alla Fox, e ha attaccato pesantemente chi realizza i sondaggi. Secondo lui sarebbero “sbagliati di proposito”: “Ritengo che in molti non si facciano più neanche interviste”.
Trump sembra credere ancora di poter vincere, nonostante i rovesci di popolarità delle ultime settimane. “Sarà una Brexit all’ennesima potenza”, ha promesso. Ma i sondaggi lo vedono qualche punto indietro rispetto alla Clinton, soprattutto per il rimbalzo di popolarità di quest’ultima dopo che l’FBI ha archiviato l’inchiesta nei suoi confronti per le nuove rivelazioni sul Mailgate. È però vero che il vantaggio è estremamente ridotto: la media dei sondaggi calcolata da RealClearPolitics, un sito specializzato, lo quantifica in soli tre punti percentuali, all’interno del margine di errore.
In realtà, gli elettori USA votano già da giorni: ognuno dei 50 Stati più uno (il distretto di Columbia, sede della capitale Washington) prevede qualche forma di voto anticipato o per corrispondenza. E quest’anno un numero record di elettori ha scelto di esprimersi prima dell’Election Day. Ad esempio, in Florida è più che raddoppiato il numero di votanti di origini ispaniche. Negli anni scorsi i latinoamericani non erano stati determinanti per l’esito delle elezioni, e avevano sempre fatto registrare percentuali piuttosto alte di astensionismo. Ma quest’anno qualcosa potrebbe cambiare. La campagna elettorale di Trump ha preso di mira le minoranze, con accenti a volte anche apertamente razzisti; mentre la Clinton è una beniamina dei latinos, che già nelle primarie dem del 2008 avevano mostrato di preferirla ad Obama.
Qualche seggio elettorale ha già chiuso le urne e contato le schede: è successo nello stato del New Hampshire, sulla costa est, in alcune località con meno di cento abitanti. E i risultati sono in linea con i sondaggi della vigilia: Clinton in risicato vantaggio su Trump. L’ex Segretario di Stato ha vinto 17-14 a Hart’s Location, ha perso 4-16 a Millsfield, ma si è imposta a Dixville, dove ha ottenuto 4 voti contro 2 (e un voto è andato anche a Gary Johnson, il candidato del Partito Libertario). Cifre irrisorie, ma comunque buone notizie per i democratici: per un’insolita coincidenza, nelle ultime quattro occasioni i pochi elettori di Dixville hanno sempre puntato sul candidato che poi è risultato vincente.
Quella appena ricordata non è l’unica complicazione del meccanismo elettorale USA, che deve rappresentare fedelmente le preferenze dei 300 milioni di abitanti di un paese esteso su 10 fusi orari. Ognuno dei 50 Stati (più uno: la capitale Washington è nel distretto di Columbia, formalmente fuori da ogni stato) ha la propria legge elettorale e le proprie particolarità, a tratti bizzarre. La formula generale assegna a ogni Stato un certo numero di grandi elettori, che dipende dalla sua popolazione: si va dai quasi quaranta milioni di abitanti della California al mezzo milione o giù di lì di abitanti del Wyoming. In 48 Stati su 50 i grandi elettori, in blocco, sostengono il candidato più votato alle urne, anche se la differenza dovesse essere esigua. È un’applicazione del sistema maggioritario che si sintetizza bene nella formula “chi arriva primo prende tutto”. Fanno eccezione due soli Stati, Nebraska e Maine, che dividono i propri grandi elettori in modo proporzionale; ma in totale hanno poco più di tre milioni di abitanti, l’1% del totale.
In tutto i grandi elettori sono 538. Perciò, per ottenere la presidenza, bisogna assicurarsene 270. Per vari motivi storici, economici e socio-culturali, alcuni Stati votano quasi sempre dalla stessa parte: ad esempio la California favorisce i democratici, il Texas non ha più smesso di votare repubblicano dagli anni ’60 del secolo scorso. Ma da altre parti la corsa è più serrata, e assicurarsi la posta in gioco lì fa regolarmente la differenza. Quest’anno, secondo i sondaggi, gli swing State – gli Stati dove Clinton e Trump arrivano testa a testa – sono 15 su 50. Ne fanno parte Stati popolosi come la Florida e l’Ohio, che vantano una pluridecennale tradizione di indecisione. Degli altri, i più grandi sono la Pennsylvania (20 grandi elettori), la Carolina del nord (15) e la Virginia (13).
Sempre secondo gli stessi sondaggi, i grandi elettori che sicuramente appoggeranno la Clinton sono 203, mentre 164 sono quelli certi di votare Trump. All’ex Segretario di Stato, quindi, servono meno voti dagli Stati in bilico, mentre il tycoon deve sperare nel filotto.
F.M.R.
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