Negli USA dilaga la levata di scudi contro il Muslim ban, il decreto del presidente Donald Trump che vieta l’ingresso nel paese ai cittadini di sette stati abitati in maggioranza da musulmani: Iraq, Iran, Libia, Siria, Somalia, Sudan e Yemen.
In conformità al provvedimento, almeno un centinaio di viaggiatori in possesso dei passaporti “incriminati” sono rimasti bloccati negli aeroporti, anche quando avevano tutte le carte in regola per entrare negli USA. Il dipartimento della Sicurezza nazionale parla di 109 fermi, ma i numeri vanno aggiornati di ora in ora. E decine di avvocati hanno deciso di assisterli gratis.
I correttivi annunciati dall’amministrazione Trump non hanno convinto l’opinione pubblica. È servito a poco dichiarare – come ha fatto il capo di gabinetto Reince Priebus – che i titolari di carta verde, il permesso di soggiorno negli USA a tempo indeterminato, saranno esentati dal bando. E l’annuncio di una corsia preferenziale per i cittadini cristiani di quei sette stati si è rivelato un clamoroso autogol per lo staff del presidente.
Tuona l’opposizione democratica e voci di condanna si levano anche dal coro della maggioranza repubblicana. I senatori Lindsey Graham e John McCain, due veterani conservatori del Grand Old Party, hanno pubblicato una dichiarazione congiunta in cui si paragona la legge a una “ferita autoinflitta” che finirà per rendere più dura la lotta contro il terrorismo internazionale.
Più che in Campidoglio, però, il dissenso si fa sentire nelle strade e nelle piazze. Manifestazioni con migliaia di partecipanti sono scoppiate in maniera spontanea un po’ in tutte le principali città d’America e nelle vicinanze degli aeroporti. Salta meno all’occhio, ma probabilmente ha più peso politico della stessa mobilitazione popolare, la dichiarazione congiunta dei procuratori generali di 14 stati e del distretto federale della capitale, che hanno definito “incostituzionale” il provvedimento di Trump. Ed è già iniziata la stagione dei ricorsi, per la precisione nella notte fra sabato e domenica: ad aprire le danze è stata la giudice newyorkese Ann M. Donnelly, di Brooklyn, con un’ordinanza d’emergenza che ha bloccato le procedure di espulsione degli interessati.
Com’era prevedibile, gli Stati colpiti dal decreto si sono affrettati a prendere contromisure. Il primo è l’Iran, che ha già deciso di prendere un provvedimento in senso inverso. La lettera di protesta del governo della repubblica islamica è stata consegnata all’ambasciatore svizzero a Teheran. Si attende una misura simile anche dall’Iraq. “Profondamente preoccupato” il segretario della Lega araba, Ahmed Aboul Gheit, mentre l’Alto commissario ONU per i diritti umani – il principe giordano Zeid bin Ra’ad al-Hussein – parla di atto “illegale e meschino”. “Noi non discriminiamo sulla base della nazionalità, della razza o della religione”, dichiara il portavoce della Commissione UE Margaritis Schinas, “non solo per l’asilo ma per qualsiasi altra nostra politica”.
Sono ferme anche le reazioni degli stati alleati di Washington. In prima linea c’è l’Indonesia, lo stato con più cittadini musulmani al mondo. Dura anche la cancelliera federale tedesca Angela Merkel: la conferma del portavoce Steffen Seibert è arrivata solo stamattina, ma secondo quanto ha detto alla stampa, la cancelliera avrebbe riferito già ieri, al telefono con la Casa Bianca, di ritenere che “persino nella battaglia necessariamente risoluta contro il terrorismo non sia giustificato sospettare di persone di determinate origini o fedi religiose”.
Ha preso posizione anche la premier britannica Theresa May, il primo capo di governo europeo a volare negli USA dopo l’insediamento di Trump, che ha ordinato ai ministri degli Esteri e dell’Interno – Boris Johnson e Amber Rudd – di chiedere chiarimenti ai loro colleghi di oltreoceano. La May in un primo momento non si era detta del tutto contraria al “Muslim ban”, ma le pressioni di Westminster l’hanno convinta a cambiare idea. Senza dubbio in questo ha giocato la possibilità che il bando colpisca cittadini britannici: la disposizione di Trump si applica anche a chi è cittadino di due o più stati. E la precisazione del presidente, che ieri in un tweet ha sostenuto l’esistenza di un “orribile caos” europeo, non deve aver disteso gli animi. La May, però, non ha annullato – come richiesto da una petizione firmata da oltre un milione di suoi connazionali – la visita ufficiale di Trump a Londra in programma prossimamente.
Intanto, sempre più Stati promettono ospitalità agli stranieri bloccati alla frontiera degli USA. È il caso del Canada: lo ha annunciato il premier Justin Trudeau, con un tweet nel quale ha lanciato l’hashtag #WelcomeToCanada. Anche la premier scozzese Nicola Sturgeon ha lanciato la sua versione, #WelcometoScotland.
Numerose anche le iniziative promosse da privati, tra cui molte grandi imprese americane. Howard Schultz, il fondatore della catena di caffetterie Starbucks, ha annunciato di voler assumere diecimila rifugiati in tutto il mondo nei prossimi cinque anni. Google ha aperto un fondo di oltre due milioni di dollari da versare a organizzazioni umanitarie, che potrebbe anche raddoppiare con le donazioni dei dipendenti del colosso dell’informatica. AirBNB ha intenzione di mettere a disposizione alloggi gratis per chi è rimasto coinvolto dal bando.
Hanno condannato l’iniziativa di Trump anche il fondatore di Facebook Mark Zuckerberg, l’AD di Apple Tim Cook – che ha citato un discorso di Abraham Lincoln contro le discriminazioni –, lo scrittore Stephen King e il cantautore Bruce Springsteen.
Più sfumata la presa di posizione di Uber: l’AD Travis Kalanick ha definito “sbagliato e ingiusto” il decreto di Trump, ma solo dopo che i suoi autisti non professionisti avevano rifiutato di aderire allo sciopero generale dei taxi indetto a New York, fatto che ha scatenato polemiche rimbalzate per tutta la Rete. Kalanick fa parte della rosa dei consiglieri economici di Trump.
Investito da tante polemiche, Trump ha replicato a modo suo: ha sostenuto che il suo provvedimento non fosse diretto contro i musulmani, dando indirettamente la colpa alla stampa, e si è riferito a un precedente del 2011: il suo predecessore Barack Obama avrebbe sospeso per sei mesi la concessione di visti ai richiedenti asilo iracheni. Ma i dati dicono altro: la concessione di visti rallentò, senza mai fermarsi del tutto, quando l’amministrazione introdusse regole più stringenti dopo aver scoperto che due iracheni coinvolti nella resistenza armata contro le truppe americane avevano chiesto e ottenuto asilo negli USA. Come ricorda il Washington Post, prima di tutto non si trattava di un bando totale, poi fu la risposta a una minaccia reale e circostanziata. Minaccia che alcuni, oggi, faticano a individuare nei richiedenti asilo siriani e iracheni.
In questi giorni sui social media circolano con insistenza due illustrazioni sulle vittime americane del terrorismo islamico. Una confronta il loro numero con quello dei loro connazionali uccisi da fulmini, falciatrici e cadute dal letto: il paragone è impari, ma la percezione del rischio nella società dice il contrario. L’altra fa notare quanti americani sono stati uccisi negli ultimi quarant’anni da cittadini di quei sette stati: il totale è zero. Tanto per fare un esempio, dei 19 esecutori degli attentati dell’11 settembre 2001, 15 erano sauditi, due cittadini degli Emirati arabi uniti, uno egiziano e uno libanese. Alcuni – tra cui la tv Bloomberg, da sempre vicina ai democratici – sostengono che la mappa del bando sia stata tracciata tenendo a mente, più che la geografia del terrorismo, i paesi nei quali operano le aziende del gruppo Trump. E in effetti le società la cui proprietà risale al presidente USA – e che ora dovrebbero essere amministrate dai figli, per evitare lampanti conflitti d’interessi – sono attive in Arabia saudita, in Egitto e negli Emirati.
Che Trump fosse impopolare non sorprende nessuno, ma la sua determinazione a mantenere le promesse elettorali ha polarizzato decisamente gli animi. Secondo un sondaggio Gallup, dopo appena una settimana dall’insediamento il presidente raccoglie già la disapprovazione del 51% dei cittadini interpellati. A dichiararsi espressamente favorevole al suo operato resta il 42%. Il suo ultimo predecessore repubblicano, George W. Bush, alla Casa Bianca dal 2001 al 2009, aveva superato la soglia del 50% di disapprovazione dopo tre anni da presidente.
F.M.R.
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