Spendere parole per dire che ieri ha vinto l’antipolitica, l’alternativa al vecchio modo di gestire la pubblica amministrazione e sostenere che in questo turno elettorale hanno vinto gli antisistema, è troppo facile e francamente un po’ riduttivo. Intanto bisogna ammettere che il vero vincitore di queste amministrative è la stanchezza degli italiani che non credono più nel sistema partiti al netto delle inefficienze, della disonestà, dell’arroganza e delle bugie.
Quell’italiano su due che è andato a votare ha chiesto, giustamente, che si aprissero le finestre. Serviva aria nuova e questa è entrata nelle stanze maleodoranti di Roma e Torino soprattutto grazie ai cinquestelle e ai loro neosindaci ragazzi. La vecchia politica ed il Pd in particolare non sono riusciti a fare argine e l’ondata di rinnovamento passata in maniera travolgente dove si è votato, la dice lunga sulle conseguenze che questo voto avrà sia sul governo di Matteo Renzi che sul referendum istituzionale del prossimo ottobre.
Ma quanto successo ieri consente una analisi abbastanza esaustiva di quanto accadrà nelle stanze del potere a partire dai prossimi giorni, quando il nuovo, ovvero Cinquestelle e outsiders locali cominceranno o riprenderanno a governare dopo aver letteralmente asfaltato il Pd e la destra nel suo complesso. E si partirà proprio da Roma, Torino e Napoli. Nella Capitale, Virginia Raggi ha trionfato anche su quei “vili attacchi personali” che hanno mostrato il volto peggiore e arrogante di un Pd che avrebbe fatto meglio a guardare in casa propria la situazione di sfascio politico che vive e che è sotto gli occhi di tutti.
A Roma come a Torino è in corso una mutazione genetica della politica che va ben oltre le responabilità dei personaggi che sono rimasti in corsa con il vecchio sistema. Sarebbe disonesto affermare che la città degli Agnelli ha punito Fassino in quanto cattivo amministratore. Torino, laboratorio d’Italia insieme alla Capitale, ha deciso, con coraggio e speranza, di affidarsi al nuovo, ad una giovane ed intelligente donna che ora dovrà disegnare e realizzare il capoluogo del futuro con un occhio alla deindustrializzazione ed uno sguardo alla necessità di dare risposte concrete a problemi come l’integrazione, la disoccupazione e l’immigrazione selvaggia. Scelte e sfide non facili sulle quali Torino ha deciso di affidarsi a Chiara Appendino. Il nuovo appunto. Come a Roma, dove il consenso per i Cinquestelle, a valanga, è venuto dalle periferie, quelle periferie abbandonate a se stesse da troppo tempo e sulle quali, per trent’anni, Pd e sinistra romana avevano vissuto demagogicamente di rendita.
Un discorso a parte va fatto per Napoli, ovvero per la “repubblica partenopea” di Luigi de Magistris, anche lui plebiscitato in funzione antigoverno, anti-Renzi. Un consenso che comunque, è bene dirlo, rischia di isolare ancora di più una città dove malavita, disorganizzazione amministrativa e corruzione la fanno ancora da padrone. Ma così è: un popolo ed una città derubati e massacrati da sempre, alla vecchia politica hanno preferito l’ex magistrato Masaniello che ora aspirerebbe addirittura ad esportare nel resto del Paese quella che chiama pomposamente “la sua rivoluzione”, una rivoluzione un po’ parolaia, che per il momento passa solo per i no al potere centrale e per i tanti sì alle spinte e controspinte emotive e clientelari che animano il suo “movimento”.
Un’ultima annotazione riguarda la destra che non c’è più. Quella che con il disastro di queste ore ha fatto da corollario al crepuscolo umano e politico dell’ultimo, unico e vero leader, Silvio Berlusconi. Forza Italia è ormai allo sbando polverizzata dall’assenza di una strategia complessiva (basti vedere il caso di Roma e dell’ostruzionismo alla candidatura di Giorgia Meloni), minata, tra l’altro, dalla miriade di autocandidature alla leadership di piccoli personaggi che come risultato finale hanno provocato la perdita dell’ultima roccaforte, Milano, dove il candidato Stefano Parisi ha dovuto cedere il passo al collega manager del centrosinistra Giuseppe Sala.
Il redde rationem di queste amministratrive infine non lascia fuori Matteo e Salvini e la Lega. Non passa il primo, ancora alla ricerca di un riconoscimento di leadership che, a destra, tarda a venire, e frana la seconda che, non incide minimamente sul voto di Milano, e che nella storica roccaforte di Varese perde a vantaggio di un illustre sconosciuto espresso da una Pd non certo in grande spolvero. E’ questo il nuovo quadro politico su cui ora dovrano ragionare partiti e presidente del Consiglio.
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