“Gradisca ci mancherai molto”. Salutava così un giovane Alvaro Vitali la bella sposa Magali Noel che se ne andava dal paesello su una vettura e con un marito alla fine di Amarcord.
A quasi 84 anni si è addormentata a Chateauneuf Grasse senza più svegliarsi il simbolo di una femminilità gattesca e fulminea, un’artista a tutto tondo, cantante, attrice, ma soprattutto icona d’un mondo in cui Afrodite era gioiosa e leggera, sognante e avvolta d’un impudica raffinatezza che ha ispirato più d’una generazione.
Nasceva Magali Noel Guiffray nell’estate di Smirne nel 1932, dove visse e debuttò a 16 anni come cantante prima di trasferirsi in Francia a 20 per calcare il palco dei teatri di rivista, un misto di prosa musica e danza il cui fulcro era appunto lei la Soubrette.
Negli anni 50’ debutto a Parigi sul grande schermo con film rimasti classici. Nel 55’ con Jules Dassin in Du rififi chez les hommes (in italiano ‘Rififi’) poi ne La Grande Razzia di Henri Decoin (1954) e in Grandi manovre di René Clair (1955).
Conobbe l’Italia e il successo internazionale li dove il cinema stava conoscendo alcuni tra i più importanti artisti dello scorso secolo, tra cui Fellini e proprio l’occhio del pittore vide in lei la musa ispiratrice di un erotismo spontaneo e assoluto, domestico e indomito.
Partecipò a tre pellicole: La Dolce Vita (1960), Satyricon (1969) e Amarcord (1973), ed è proprio quest’ultimo che la consegnò alla memoria, all’archetipo della dolcezza sognatrice, la Gradisca.
Ed è quel mondo che più di tutti si allontana, ora che la sua interprete ha salutato per l’ultima volta la platea. Perché la Gradisca non è soltanto il personaggio forse grottesco ai nostri occhi di una donna che vive per trovar marito, di una nave scuola per i monelli del paese, non è solo quella che viene salutata dai maschi che giocano a carambola al bar. Che sorride al sindaco e si sbraccia al passaggio del duce. È anche il simbolo di una Rimini leggera, in pieno tripudio fascista, ma anche fuori dal tempo, o meglio in quel tempo di cui Pasolini cantava “non piango perché quel mondo non torna più, / ma piango perché il suo tornare è finito”.
Perché Gradisca esisteva davvero, ma faceva di cognome Morri, era una sarta di Rimini conosciuta dal giovane Fellini che se ne invaghì e a cui dedicò il personaggio del film.
È finito il mondo delle donne in pelliccia che fanno lo struscio per le vie del centro? Forse non vestono più le pellicce, capo politicamente scorretto, di certo non giocano a palle di neve con i giovanotti in piazza. Ad essere finita è quell’idea stessa della donna che Gradisca trasudava, che non ha nulla a che vedere con le cinquantenni di oggi alla ricerca di un toy boy, nè con le cougar, che esistono solo nella lingua di internet, che realizza i versi di Jacques Brel in cui lo scrittore descrive chi confonde l’erotismo con la ginnastica.
Gradisca era l’espressione di un galateo erotico le cui armi erano una sottoveste e un cappellino sulle ventitrè, una sigaretta spenta in mano in attesa di un giovane cortese, una lacrima nascosta dal trucco e da un sorriso.
Dopo Laura Antonelli, anima condannata ad una solitudine infinita, questo inizio secolo perde un’altra “femme fatale”, nel sonno di Chateauneuf Grasse il giorno prima del suo 84esimo compleanno.
Rimarremo in attesa di sentire nuovamente una donna dire “Signor principe…Gradisca”.
Flavio Balzano
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