Probabilmente nemmeno Slavoj Zizek poteva prevedere gli effetti della protesta indignados in Europa, dagli incidenti di Roma a quelli di Atene, né che di una manifestazione epocale sarebbe rimasta l’immagine de “er Pelliccia” e del suo estintore. Eppure, se questa che stiamo vivendo è un’epoca di dissoluzione, l’era della fine del capitalismo, il profeta di questi tempi è proprio Zizek.
Qualcuno lo ha definito «un filosofo tra gli indignati». In effetti, come è stato anni fa per Michael Moore e Susan Sarandon, teorici di un’altra incompiuta rivolta, quella no global, insieme alla scrittrice Naomi Klein, è adesso il filosofo sloveno l’icona dei ragazzi del movimento nato negli Usa, a Zuccotti Park. Il popolo indignados, nella sua veste americana, si presentava essenziale, tra tende allestite in piazza, panini freddi del giorno prima, e un filtro biologico per trasformare l’acqua sporca dei piatti in concime per piante organiche. Lo spirito di questa folla è molto beat, un po’Woodstock, un po’Berkeley. Eppure il teorico principe di questa realtà non è un buonista, non predica idee deboli. Il suo pensiero è integralmente caratterizzato dall’applicazione e dalla chiarificazione sociale e politica dei concetti di Lacan, ma tra i suoi riferimenti rientrano anche Heidegger, la Scuola di Francoforte, Kierkegaard, Pascal e da mistici quali Jakob Boehme e Angelus Silesius. È nota inoltre la sua ammirazione per Chesterton, di cui ha tradotto diversi libri in sloveno. I suoi maggiori riferimenti contemporanei sono senza dubbio Deleuze, Badiou e Rancière. La peculiarità del suo stile filosofico e della sua stessa scrittura, all’origine del suo notevole successo mediatico, è la capacità di trattare di pensiero politico facendo riferimento alla letteratura e al cinema popolari contemporanei (da Fight Club e Pulp Fiction al B-movie italiano degli anni’70 sino ai film con Bruce Lee). E qualche tempo fa, intervistato dal quotidiano il manifesto, non esitava ad adottare per sé stesso un’etichetta politica quanto meno scomoda: «Non mi dispiace definirmi ironicamente un “fascista di sinistra”».
Oggi Zizek si presenta in t-shirt rossa, regala la sua lezione agli accampati che protestano contro Wall Street e l’America dei Gordon Gekko. Lui scandisce parole che la folla osservante ripete diffondendo la lezione con il sistema del microfono umano ai quattro angoli della piazza. «Siamo tutti dei perdenti – dice Zizek – ma i veri perdenti sono lì a Wall Street. Sono stati salvati dal nostro denaro. Ci chiamano socialisti, ma c’è già il socialismo: per i ricchi». Una delle peculiarità del pensiero dello psicanalista sloveno, infatti, è quella di prendere le distanze dalla facile e stereotipata attribuzione di «comunismo» che gli viene confutata. «Non siamo comunisti – ha dichiarato senza troppi giri di parole –: il comunismo è finito nel 1990 e gli ex-comunisti sono diventati ovunque campioni di capitalismo, basta guardare la Cina. L’unico senso in cui siamo comunisti è che ci preoccupiamo dei beni comuni che il sistema privatizza: il patrimonio ambientale, quello intellettuale, quello genetico. Il comunismo è completamente fallito, ma il problema dei beni pubblici rimane. Noi siamo democratici, anche se ci accusano di essere contro la democrazia perché critichiamo il capitalismo. Ma il matrimonio tra democrazia e capitalismo è finito». È allora alla critica radicale al capitalismo che Zizek rivolge le sue attenzioni, come rivela profeticamente nel suo ultimo libro, Vivere alla fine dei tempi (Ponte alle grazie): «L’attuale sistema di potere ha oppresso anche il modo di sognare e immaginare della gente. Grazie ai film riusciamo a immaginare la fine del mondo, colpito da un asteroide, ma non riusciamo a immaginare la fine del capitalismo. Il problema non sono la corruzione e l’avidità: il problema è il sistema. Noi qui abbiamo rotto il tabù e possiamo parlare di alternative, ma dobbiamo rispondere a domande molto difficili. Sappiamo cosa non vogliamo, ma cosa vogliamo? Quale organizzazione rimpiazzerà il capitalismo? Quali nuovi leader?».
Certamente Zizek ha delle idee, dei modelli alternativi da contrapporre a questo capitalismo in declino. Modelli probabilmente già visti, come il ritorno di uno statalismo del quale, secondo lui, non si può fare a meno. La questione è stata oggetto di critica da parte della stampa progressista statunitense, che continua a dibattere della dicotomia Stato/mercato. La storica rivista liberal New Republic invita la sinistra a non cadere nella trappola e a non sostenere la lotta degli occupanti, perché la principale differenza tra “liberal” e “radical” è che i liberal sono capitalisti che credono in un mercato regolato e si battono per raddrizzare le ingiustizie economiche. I liberal non vogliono sovvertire il capitalismo, i radical sì. Zizek, che come i radical vuole sovvertire il capitalismo, sostiene: «Non vedo nessun segno della cosiddetta estinzione dello Stato, al contrario. Perfino negli Stati Uniti, ad esempio, quasi ogni volta che si determina un conflitto tra la società civile e lo Stato, mi ritrovo a essere dalla parte di questo piuttosto che di quella». Segno dei tempi che verranno. O, probabilmente, di quelli che abbiamo già vissuto.
Giovanni Tarantino
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